lunedì 29 agosto 2011

Nessun uomo è un’isola


Il vostro autore di noterelle filosofiche ha grande curiosità di esplorare materie di cui ha scarsa o nulla cognizione, ma che magari stimolano temi già affrontati o idee in fase di germinazione. Può accadere, allora, che ascolti una conferenza sul tema del cosiddetto “meccanismo specchio”. Si tratta di un processo basato sull’esistenza dei neuroni specchio, cellule motorie del cervello che si attivano sia durante l'esecuzione di movimenti finalizzati, sia osservando simili movimenti eseguiti da altri individui. La scoperta è stata opera di un gruppo di ricerca coordinato da Giacomo Rizzolatti, docente di Neurofisiologia all’Università di Parma, e, per un profano, quale è il sottoscritto, è assolutamente interessante, in quanto pone una base fisiologica all'empatia. È fondamentale, per sopravvivere, capire le azioni, le intenzioni e le emozioni degli altri. Avviene che il comportamento altrui (sia nel caso di azioni che di emozioni), dopo essere stato registrato nel sistema visivo, attivi le rappresentazioni motorie dell’osservatore, che corrispondono ai comportamenti osservati. Il significato delle azioni e delle emozioni degli altri è capito perché suscita nell’osservatore un’esperienza motoria che e gli già conosce. Quindi, non è indispensabile una mediazione cognitiva, per capire non solo che cosa stia facendo una persona, ma quali siano le intenzioni sottostanti l’azione osservata. Giova leggere quello che ha scritto Rizzolatti, insieme ai colleghi Leonardo Fogassi e Vittorio Gallese: “Marco guarda Anna che prende un fiore. Marco sa ciò che sta facendo Anna - sta raccogliendo il fiore - e sa anche perché. Anna sta sorridendo a Marco, il quale prevede che lei gli rega¬lerà il fiore. Questa semplice scena dura pochissimo, ma Marco capisce quasi all'istante che cosa sta accadendo. Come fa a comprendere così facilmente l'azione e le intenzioni di Anna? Fino a una decina d'anni fa, i neuroscienziati e gli psicologi avrebbero attribuito la nostra comprensione delle azioni degli altri, e specialmente delle loro intenzioni, a un rapido ragionamento, più o meno identico a quello che usiamo per risolvere un problema logico: un sofisticato apparato cognitivo nel cervello di Marco elabora l'informazione incamerata dai suoi organi di senso e la confronta con le esperienze archiviate in memoria. Ecco come Marco può dedurre ciò che Anna sta facendo, e perché. Ma anche se talvolta si verificano operazioni deduttive di questo tipo, specie quando il comportamento di qualcuno è difficile da decifrare, la facilità e la rapidità con cui in genere comprendiamo azioni semplici suggerisce una spiegazione molto più diretta. All'inizio degli anni novanta, il nostro gruppo di ricerca all'Università di Parma, di cui all'epoca faceva parte anche Luciano Fadiga, scoprì quasi per caso la risposta in una classe di neuroni del cervello di scimmia, che si attivano quando un individuo esegue semplici azioni motorie dirette a uno scopo, per esempio afferrare un frutto. Ma l'aspetto sorprendente fu che quegli stessi neuroni si attivavano anche quando l'individuo vedeva un suo simile compiere la stessa azione. Poiché questo insieme di neuroni appena scoperti sembrava riflettere le azioni eseguite da un altro soggetto direttamente nel cervello dell'osservatore, li abbiamo chiamati «neuroni specchio»”. Il vostro autore, appunto da profano, non può fare a meno di pensare al grande John Donne: “Nessun uomo è un'Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare, la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. Ogni morte d'uomo mi diminuisce, perché io partecipo all'Umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: Essa suona per te”.

pubblicato il 15 aprile 2011

domenica 28 agosto 2011

WENDELL BERRY


Wendell Berry è poeta e contadino, saggista, filosofo e coltivatore. Vive nel Kentucky, scrive e insegna all’Università, ma non ha mai rinunciato, anche nella sua vita quotidiana, a tenere insieme, come dice, cultura e agricoltura. “Oggi, le economie locali vengono distrutte dall’economia globale, che non rispetta ciò che viene prodotto localmente. L’economia globale è costruita sul principio che un luogo può essere sfruttato, e anche distrutto, per la salvaguardia di un altro luogo”. Berry parla di un mondo da salvaguardare, fatto di coltivazioni da veder crescere giorno dopo giorno, in una dimensione bucolica che però comporta una scelta civile e politica: il non sfruttamento della Terra Madre. Torna in mente il poeta Robert Frost: “Io dell'aria vivevo/Che a fiotti da dolci cose/ M'investiva...profumo di muschio/Da giovani vigne nascoste/In fondo a un poggio al crepuscolo […]”. Sostiene Berry che noi viviamo in una società basata pesantemente sulla manifattura di beni, e troppo spesso su una mentalità usa-e-getta, guidata da capricci e mode. “Risvegliare gli istinti per qualità e sostanza ridurrà immediatamente le nostre richieste di materie prime ed energia e c'incoraggerà al contempo ad esplorare le relazioni individuali con i sistemi che sostengono la vita umana”. Incuriosito dal riferimento a Terra Madre, ho cavato dalla mia libreria un volume, “Terra Madre”, appunto, in cui sono radunate le descrizioni di coltivazioni particolari, pervicacemente difese in moltissime parti del mondo. Difese con amore e con il gusto dell’infinità varietà, dono davvero divino. Scrive Berry nel “Manifesto del contadino impazzito”: "Amate il guadagno facile, l'aumento annuale di stipendio, le ferie pagate. Desiderate sempre più cose prefabbricate. Abbiate paura di conoscere i vostri vicini, e di morire, e avrete una finestra nel pensiero. Nemmeno il vostro futuro sarà più un mistero, la vostra mente sarà perforata in una scheda e messa via in un cassetto. Quando vi vorranno far comprare qualcosa vi chiameranno. Quando vi vorranno far morire per il profitto ve lo faranno sapere. Ma tu amico, ogni giorno, fa' qualcosa che non possa entrare nei calcoli. Ama il Creatore, ama la terra. Lavora gratuitamente […] abbraccia gli esseri umani. Nel tuo rapporto con ciascuno di loro riponi la tua speranza politica […] Fai le domande che non hanno risposta. Investi nel millennio. Pianta sequoie. Sostieni che il tuo raccolto principale è la foresta che non hai piantato e che non vivrai per raccogliere. Afferma che le foglie quando si decompongono diventano fertilità. Chiama questo "profitto" […] Sorridi, il sorriso è incalcolabile, sii pieno di gioia […] Vai col tuo amore nei campi. Stendetevi tranquilli all'ombra, posa il capo sul suo grembo... e vota fedeltà alle cose più vicine alla tua mente. Appena vedi che i generali e i politicanti riescono a prevedere i movimenti del tuo pensiero, abbandonalo. Lascialo come segnale per indicare la falsa traccia, la via che non hai preso. Sii come la volpe, che lascia molte più tracce del necessario, alcune nella direzione sbagliata. Pratica la resurrezione".

pubblicato l'8 aprile 2011

IL NONIO E LA GRAMMATICA


Il matematico e geografo portoghese Pedro Nunes inventò, nel 1542, in pieno Rinascimento, il nonio, allo scopo di migliorare la precisione di lettura della scala graduata di uno strumento di misura. Nunes, che fu anche cartografo reale, scrisse un inaspettato elogio della grammatica, “nutrice di ogni scienza”. Ora, la grammatica produce regole: “è il procedimento attraverso il quale associamo, ad ogni parola presente all'interno di una frase, la propria categoria d'appartenenza, che sia questa quella dei nomi, degli aggettivi, dei pronomi, dei verbi o degli articoli; categorie di parole, quindi, che possono essere variabili, quando in accordo tra loro con genere e numero nella coniugazione della voce verbale, mutando le proprie terminazioni, o invariabili, come avverbi, preposizioni, congiunzioni e interiezioni, non soggetti a flessioni di questo tipo. […] Dovremo quindi specificare le esatte definizioni di ciascuna parte del discorso, distinguendone le proprietà morfologiche caratteristiche, cioè genere, numero, tipologia, ecc. e definendone altresì le relazioni che la legano ad altri determinati elementi all'interno della proposizione in cui si trova impiegata” (R.Volpi). Perché, quindi, la grammatica come nutrice di ogni scienza? Con il corredo delle figure del discorso di cui è costellata – l’allitterazione, l’iperbole, la metafora, la metonimia, l’ossimoro – la grammatica consentì a quell’universo vario e variamente stratificato che furono l’Umanesimo ed il Rinascimento di cogliere un nuovo significato dei testi antichi. Non più, quindi, la lettura tradizionale e ossificata della scolastica, ma la capacità, attraverso una conoscenza approfondita di quei sistemi di regole (della lingua latina e di quella greca, soprattutto, ma anche dell’ebraico: uno degli obiettivi di Erasmo fu l’esegesi delle Scritture), di scavare nei testi per mettere in luce la verità che avevano desiderato gli autori. La caparbia attenzione alla grammatica potrà diventare, nel corso degli anni, una sorta di asfissia, ma, nello spirito originario, è stata un’operazione di libertà. Ha inserito i testi in una prospettiva storica. Questo dobbiamo all’umanesimo: la scoperta che la nostra dimensione è la storia, e, poiché la storia è variazione e cambiamento, la consapevolezza che niente è fissato per sempre. Si apre, quindi, il principio speranza. Questa visione della realtà e del tempo porta con sé la possibilità di un programma di azione: è possibile cambiare la vita, è possibile cambiare il mondo, così come cambiare un testo o uno stile.

pubblicato il 1 aprile 2011

sabato 27 agosto 2011

I CILIEGI E LA SCIENZA


Nel 1986 accade un grave incidente alla centrale nucleare di Chernobyl: si sprigiona una nube radioattiva, che, nel giro di pochi giorni, si irradia nei cieli di Europa. Si teme la contaminazione di latte, verdure, carni degli animali. Si apre un dibattito sul senso ed il limite della scienza. Il limite: una categoria che si scontra con il prometeismo tipico del pensiero scientifico occidentale. Insomma, la costruzione del totem del progresso scientifico e tecnologico. Da qui si sviluppò un importante pensiero, che vide protagoniste soprattutto le donne: scienziate ed epistemologhe come Elisabetta Donini ed Evelyn Fox Keller sostenevano un paradigma di “fare scienza differente”, attraverso forme e procedure più vicine all’empatia che all’invasività. Cominciarono a circolare sempre di più parole come senso del limite, compatibilità e sostenibilità, etica della cura, complessità, e non solo nel mondo occidentale, ma anche in quei Paesi in cui un progresso travolgente portava anche danni irreversibili all’ambiente, alla natura, all’ecosostema tutto, e quindi anche alle relazioni umane. Si pensi all’indiana Vandana Shiva, che raccontava delle donne che abbracciavano gli alberi perché non venissero abbattuti. Una grande scrittrice tedesca, Christa Wolf, scrive “Guasto”: un libro in cui l’autrice racconta una giornata. Un guasto, un’avaria, una crepa nel sistema scientifico e produttivo, una crepa nel sistema culturale e di pensiero di un mondo intero. Racconta di una giornata del maggio 1986, in cui, nella sua casa di campagna – una giornata di cielo radioso e di ciliegi in fiore – lei stessa ascolta la radio (la nube radioattiva è arrivata sulla Germania) e aspetta lo squillo del telefono: suo fratello sta subendo un delicatissimo intervento chirurgico alla testa. A epigrafe del libro, una frase di Carl Sagan: “Non abbiamo mai separato l’uccidere dall’inventare. Tutt’e due derivano dall’agricoltura e dalla civiltà”. Scrive Wolf: “[credevamo] che la scienza, il nuovo Dio, ci avrebbe fornito tutte le soluzioni che gli avessimo chiesto”. Non è stato così, non è così. Il margine di rischio proprio di ogni attività umana diventa ineluttabilmente irreversibile, in certe circostanze. Un mondo in cui la 'launische Forelle' di Schubert, la trota capricciosa, è ridotta a deposito di scorie radioattive. I ciliegi in fiore. Vengono in mente i ciliegi giapponesi. (Christa Wolf è nata a Landsberg nel 1929 e vive a Berlino. Molti suoi scritti sono tradotti in italiano).

pubblicato il 25 marzo 2011

Olismo e frammentazione gnoseologica


L’estrema frammentazione cognitiva e rappresentativa del mondo attuale rende appetibile un approccio sistemico ed olistico alla conoscenza. Un nuovo paradigma, quindi, capace di dare conto di una realtà segnata dalla globalizzazione, da un lato, e da innumerevoli differenze, dall’altro. Olismo, dunque, come visione di insieme, di sistema, che integra le singole parti per recepirle nel suo complesso. Nella cultura occidentale, sono il dettaglio, le singole parti, a prevalere. Il paradigma dominante meccanicistico- riduzionistico si affermò nel corso del XVII secolo, per mezzo delle figure di Copernico, Keplero, Galileo. Detto in maniera molto schematica, si trattò di superare lo schema di pensiero aristotelico-tolomaico-scolastico, in nome di strategie cognitive fondate sull'osservazione e sulla sperimentazione. Soffermiamoci su Cartesio, e sul duplice dualismo che il suo pensiero instaura, la prima tra sostanza infinita, cioè Dio, e sostanza finita: il mondo e le sue creature; la seconda, tra “res cogitans” e “res extensa”: la prima è lo spirito, la seconda è la materia. Res cogitans, poiché attributo essenziale dello spirito è il pensiero, e res extensa, in quanto attributo essenziale della materia è l’estensione: due entità irriducibili. Entità che si trovano comunque unite nell’essere umano, che è a un tempo anima e corpo. Le conseguenze nel pensiero filosofico saranno incalcolabili: una tra tutte, la teoria per cui, se la res cogitans è separata dalla res extensa, le idee non possono derivare dall’esperienza sensibili, ma sono innate. Il grande filosofo Nietzsche criticherà l’impostazione oggettivista e rappresentazionalista ereditata da Cartesio. “L’uomo finge di credere che ci sia un mondo indipendente dal soggetto, che possa averne una rappresentazione corretta e che la correttezza di questa descrizione del mondo passi attraverso la corrispondenza fra pensiero e realtà. Per smontare la versione oggettivista imperante nella storia del pensiero, Nietzsche revisiona il linguaggio perché è al suo interno che risiede la costruzione del mondo”. (D. De Leo). L’individuazione delle due dimensioni res cogitans e res extensa portò, quindi, alla separazione del soggetto osservatore dal soggetto osservato. Nasceva la meccanica, e quindi il meccanicismo. Nasceva l’interrogazione attorno allo “specialismo”: da una parte, ogni specialista conosce molto di un determinato ambito, ma nulla dei contesti di cui tale oggetto fa parte; dall'altro, non risponde a quello che rappresenta un organismo vivente, non riconducibile a singole parti, ma esistente come totalità. Facciamo un salto, e arriviamo al Novecento: si afferma l’idea che la percezione di ciò che è osservato dipende dagli schemi cognitivi di cui disponiamo e che, quindi, tale visione non sarà mai oggettiva. L’auspicio è che si affermi uno stile di pensiero dialogante, in grado di superare la dicotomia presente tra i paradigmi per dar vita ad una visione di sistema della realtà che, merita di essere compresa in tutta la sua complessità.

pubblicato il 18 marzo 2011

La felicità della terra-madre


“Il nostro benessere economico è in costante aumento, ma come risultato noi non siamo più felici”. Sono parole di un libro di Tibor Scitovsky, “L’economia senza gioia”. Scrive l’autore che, per amore del comfort, avviene che trascuriamo molti altri ingredienti della “vita buona”. È una sorta di paradosso della felicità, già individuato dall’economista Richard Easterlin nel 1974, quando, dalla sua indagine, emerse che nel corso della vita delle persone la felicità e il reddito non vanno di pari passo, e che non esiste una correlazione significativa e robusta tra reddito e felicità soggettiva. Una possibile chiave di lettura è che, aumentando il reddito, aumentano anche le aspirazioni: una sorta di vite senza fondo. Alcuni economisti individuano in questo processo l’azione di meccanismi di competizione e di rivalità, una sorta di “competizione posizionale”. Scrive Scitovsky: “La spiegazione più evidente è che la felicità di una persona dipende dalla sua relazione con la felicità dei ‘vicini di casa’ e non dal suo standard di vita in termini assoluti”. Qual è la soluzione? Coniugare il comfort con la stimolazione, con il “bene di creatività”, come lo chiama l’economista Hawtrey. Scitovsky individua un eccessivo aumento della domanda e dell’offerta di comfort, a scapito della stimolazione. È una tendenza rafforzata anche dalle caratteristiche del sistema educativo, che fornisce sempre più abilità produttive,con l’obiettivo di assicurare una maggiore efficienza nel lavoro, a scapito dell’abilità nel consumo dei beni di creatività, che richiedono conoscenze generali frutto anche di una cultura umanistica. “Non ci sarebbe nulla di male a richiedere alle cassiere o ai ragazzi della stazione di benzina un diploma di scuola media o superiore, se questi certificati li rendessero in grado di apprezzare di più i libri che leggono o la musica che ascoltano, mentre aspettano di servire i loro clienti. Nella maggior parte dei casi, invece, i loro diplomi forniscono loro delle abilità di produzione, che il più delle volte rimangono inutilizzate e che hanno ‘spiazzato’ quel tipo di educazione che avrebbe preparato loro al miglior apprezzamento del loro tempo libero”. Quanto alla stimolazione, essa “proviene dall’infinita varietà, imprevedibilità, e occasioni di contatto umano, soprattutto quando ci assumiamo il rischio di ‘stuzzicare’ e stimolare l’altra persona”. Una cultura della relazione, quindi. Un altro grande economista, Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, ha elaborato l’Hdi, lo Human Develompent Index, il coefficiente di misurazione del grado di sviluppo che ha introdotto nuovi parametri per valutare la ricchezza reale di un Paese, come l’aspettativa di vita, l’alfabetizzazione degli adulti, la distribuzione del reddito: gli aspetti sociali dell’esistenza umana. Per Sen, le libertà politiche e i diritti democratici sono elementi costitutivi dello sviluppo: la sua è un’architettura di pensiero che tiene conto dell’aspetto relazionale, accanto a temi come l’economia sostenibile e la finanza etica. La relazione tra le persone tiene a freno il rischio della “fissazione” identitaria, tipica del fondamentalismo, che chiede di essere solo quella cosa, negando alla persona la sua storia e la sua complessità. Anche la cura della relazione è “un bene di creatività”. In sua assenza, prevalgono la drastica riduzione a pensare al futuro collettivo, la privatizzazione e la desertificazione del futuro. Su questa base, il filosofo Remo Bodei traccia un’idea di sviluppo che non consiste in una maggiore ricchezza di beni materiali, ma anche e soprattutto in un processo di trasformazione sociale in grado di eliminare le fonti principali di illibertà come l’ignoranza, la malattia, la mancanza di democrazia, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali. Per dirla con Vandana Shiva, studiosa dal pensiero ricchissimo: occorrono una democrazia che parta dalle realtà locali, dalla partecipazione e vigilanza attiva dei cittadini, per rivendicare la restituzione delle risorse comuni alla collettività; e una cultura che promuova il rispetto della diversità e il sentimento della responsabilità universale. Il rispetto dovuto alla terra: la terra come terra mater.

pubblicato l'11 marzo 2011

GIORDANO BRUNO


“La Mente che ha disperso ovunque quelle nubi”. “Così io sorgo impavido a solcare con le ali l'immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere ed il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie. Ma per me migliore è la Mente che ha disperso ovunque quelle nubi […] Mentre mi sollevo da questo mondo verso altri lucenti e percorro da ogni parte l'etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti”. Giordano Bruno fu filosofo e letterato. Un pensatore libero ed appassionato. Il brano che avete letto contiene molti dei temi cari a Bruno: la Mente che dissolve le barriere del pregiudizio e rende l’uomo libero; la vittoria dell’intelletto sui falsi princìpi; l’uomo che non teme di affrontare la sfida della conoscenza e rompe le catene di un carcere interiore non meno opprimente di quello fisico. Un pensiero proprio del Rinascimento “inquieto”. La definizione è di uno studioso di filosofia, Nicola Badaloni, per il quale quell’epoca fu un “confuso crogiuolo del nostro moderno modo di pensare”. Un’epoca colma di energia, di rinnovamento culturale e sociale, nonché di grande fluidità politica. Niente a che vedere con una visione statica ed idilliaca di un Rinascimento fermo a pascersi di bellezza e di grazia. Fu un momento storico in cui di formarono idee e concetti che poi hanno percorso la cultura, magari in modo sotterraneo e nascosto, dando frutti inaspettati. Bruno ne è un esempio. Scrisse Antonio Labriola che nel pensiero del filosofo nolano si rintraccia il momento in cui un gran contrasto di forze e di correnti sociali, “diventa contrasto di idee e di tendenze”. Fece parte dell’ordine mendicante dei domenicani predicatori, diventando dottore in teologia, studioso di Tommaso d'Aquino e di Erasmo da Rotterdam. Da qui, dalla sua lettura di Erasmo, che è fonte della concezione moderna del pluralismo e della tolleranza, nacque l'apertura di un processo a suo carico, il suo peregrinare per tutta Europa, il rapporto curioso e tormentato con le varie correnti riformate, dal luteranesimo al calvinismo, le polemiche con la scolastica di stretta osservanza aristotelica, uno stile di vita anticonformista. Tradito a Venezia, consegnato all’Inquisizione romana, in una situazione resa ancora più dura dalla Controriforma, dopo lunghi anni di carcere fu arso vivo, il 17 febbraio 1600 , in piazza di Campo de' Fiori a Roma. Sarà ricordato come un martire del libero pensiero. “Quindi l'ali sicure all'aria porgo né temo intoppo di cristallo o vetro: ma fendo i cieli, e a l'infinito m'ergo. E mentre dal mio globo a l'altri sorgo, e per l'etereo campo oltre penétro quel ch'altri lungi vede, lascio a tergo”

pubblicato il 4 marzo 2011

LIBERTA’ VA CERCANDO…


“Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all'agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. E' evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa”. Così scrive, nella “Metafisica”, uno dei più grandi filosofi dell’antichità classica, Aristotele. Libertà come non esser asserviti ad altro che non al proprio “consistam”. Meraviglia, desiderio di conoscenza, libertà: una sequenza che affascina ancora oggi. Molti secoli dopo, Kant dirà che il dovere e la volontà buona innalzano l'uomo al di sopra del mondo sensibile, fenomenico, dove vige il meccanismo delle leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo intelligibile, noumenico, dove vige la libertà. La libertà quindi è l'indipendenza della volontà dalla legge naturale dei fenomeni, ossia dal meccanismo causale naturale. Questa libertà, che non spiega nulla nel mondo dei fenomeni, spiega invece tutto nella sfera morale. La volontà è in grado di autodeterminarsi, e da qui scaturisce il senso positivo della parola libertà: l’autonomia. Ancora un salto nel tempo. Per Hannah Arendt, che di Kant fu attenta studiosa, ciascuno è un inizio, un cominciamento: inizio di ogni discorso e di ogni possibile percorso. Studiosa anche di Agostino, su cui lavorò per la tesi di laurea, cita la sua frase: “perché vi fosse un inizio fu creato l'uomo, prima del quale non esisteva nessuno”. L’essere umano è inizio e capacità di agire: di prendere l'iniziativa per affermare la libertà. “Libertà come dono supremo, conferito, a quanto pare, solo all'uomo fra tutte le creature della terra: dono del quale possiamo trovar tracce e segni in quasi tutte le attività umane, e che peraltro si sviluppa appieno solo quando l'azione riesce a crearsi uno spazio nel mondo, dove la libertà può <<apparire>>, uscendo dal proprio nascondiglio". Liberiamo la libertà, dunque.

pubblicato il 25 febbraio 2011

venerdì 26 agosto 2011

COMUNITA’, SOCIETA’, SOLIDARIETA’


Comunità o società? La domanda non presuppone una scelta di campo, non è come chiedere – io sono di altri tempi – Bartali o Coppi? Il grande studioso tedesco Ferdinand Tonnies, alla fine dell’Ottocento, lavorò sui due concetti, Gemeinschaft (la comunità) e Gesellschaft (società). Che cos’è la comunità, secondo Tonnies? È una convivenza durevole, intima ed esclusiva i cui protagonisti sono uniti da un rapporto fortemente sentito, basato sul consensus, sulla reciproca comprensione. Si appartiene volontariamente alla comunità, e qui il concetto già si complica, perché lo stesso Tonnies individua l’appartenenza ne “la medesima origine, gli stessi sentimenti e la stessa aspirazione fondamentale”. Manca comunque il dato della costruzione razionale del vivere associato: Tonnies è avversario del razionalismo illuminista e del filone contrattualista. La comunità si basa su retaggi ancestrali, antichi, quasi archetipali; la necessità del vivere in società è sollecitata dalla dimensione utilitaristica, ed in quanto tale, i suoi legami sono più blandi e fondati, appunto, sull’utile reciproco. Le ragioni del funzionamento sociale si basano su una visione meccanicistica dei rapporti, la comunità riveste un carattere quasi olistico. Da una parte il cuore, dall’altra l’intelletto. Da una parte – possiamo dire - legami gerarchizzati e ancestrali, dall’altra forme contrattualistiche moderne e potenzialmente democratiche. Alla dimensione comunitaria si rifanno molte teorie che criticano l’evoluzione capitalistica delle forme di vita, basate appunto sull’utile e sul meccanicismo di rapporti reificati e alienanti. Un altro sociologo, Talcott Parsons, definisce la comunità come quel tipo di collettività «i cui membri condividono un'area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere», giungendo però a parlare, all’interno del meccanismo societario, di una «comunità societaria» che ha come funzione l'integrazione. Infatti, nella società gli esseri umani sono essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami. L’emergere dei caratteri societari tende anche a produrre divisione di interessi, conflitti, difficoltà di adattamento. Ancora, Max Weber individua il concetto di comunità al livello delle relazioni sociali. Una relazione sociale è definita comunità « se a nella misura in cui, la disposizione dell'agire sociale poggia su una comune appartenenza, soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) dagli individui che ad essa partecipano». Si parla invece di associazione «se, e nella misura in cui, la disposizione dell'agire sociale poggia su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente (rispetto al valore o allo scopo)». Una dicotomia che richiama quella di Tonnies, ma con un livello di complessità maggiore, in quanto Weber articola le due categorizzazioni nelle reciproche forme di intersezione e interdipendenza. La modernità vede un grande sviluppo della solidarietà sociale, intesa nel senso di concreta partecipazione e di aiuto alle difficoltà in cui altre persone siano venute a trovarsi: un’azione dinamica a favore dì persone, strutture, situazioni che hanno difficoltà a mantenere un equilibrio socio-economico sufficiente a svolgere il proprio ruolo nella società. Quasi un ricostituire legami comunitari all’interno della struttura sociale. La realtà è raramente univoca e schematizzabile.

pubblicato il 18 febbraio 2011

giovedì 25 agosto 2011

Athena, Cassandra, Elettra


Il vostro autore delle modeste noterelle a carattere filosofico è appassionato assai di cultura classica. La rubrica si chiama “La civetta di Minerva”: Minerva, alter ego romana di Athena, dea greca della sapienza e del conflitto ordinato e razionale. Athena, nata adulta non da corpo di donna ma dalla testa del padre, Zeus re degli dei; armata di uno scudo ornato con la spaventosa testa della gorgone Medusa, che pietrificava chiunque la guardasse, di lancia, egida ed elmo. Athena Pallade o Parthénos, vergine, da cui il Partenone, grande tempio che sovrasta Atene, città a lei dedicata. Athena figlia di solo padre: prodotto di una cultura che si stava distaccando dai miti ancestrali, legati alla terra, alle stagioni, alla fertilità ed alle grandi dee madri della vita e della morte, dee levatrici, dee creatrici. Subentra la razionalità apollinea, le madri ubertose, odorose, balsamiche sono soppiantate dal padre, rifulgente di luce, padrone di un cosmo ordinato che intende soggiogare la natura e la sua forza virulenta, frondosa, scura. Scura come Cassandra: personaggio del mito, della letteratura, della tragedia. Cassandra che ha il dono della veggenza, dono avvelenato: figlia di Priamo e di Ecuba, sin da piccola aveva ricevuto da Apollo il dono della profezia; tuttavia in seguito, avendo respinto l'amore del dio, aveva perduto quello della persuasione, sicché non fu più creduta da nessuno. Possiamo pensare ad una sorte peggiore? Conoscere la verità e non esser creduta. Dopo l’incendio di Troia, che la sua anima visionaria aveva previsto, toccò come preda di guerra ad Agamennone, che la condusse con sé a Micene, dove il violento re cadde per mano di Egisto e Cassandra venne uccisa da Clitennestra, piena di odio verso il marito che aveva sacrificato la loro figlia Ifigenia ai suoi desideri guerreschi e di rapina. Ma ecco che si presenta una terza grande figura femminile, Elettra: affascinante e piena di mistero. È la figlia di Agamennone e Clitennestra, che, ferita dal lancinante ricordo del padre ucciso, non esita a partecipare, con il fratello Oreste, all’uccisione della madre e di Egisto. Ne hanno scritto sia Eschilo che Euripide che Sofocle: forse in quest’ultimo si avverte maggiormente lo stupore attonito di fronte ad una scelta tragica anche nella dispersione del senso. Corbeille, Racine, Voltaire, Mozart, fino a Hofmannsthal, per giungere, ai nostri giorni, a O’Neill, Pasolini ed Anghelopulos, tutti ne hanno scritto, traendo un mondo di simboli e significati dalla vicenda dell’eroina. “[…] io non desisto/dai pianti, dagli ululi lunghi,/ sin ch'io le ardentissime rote/degli astri, ed il giorno contempli”. Mi accorgo di aver scritto una nota tutta connotata di storie e personaggi femminili. E’ il modo del vostro autore di rendere omaggio a tutte quelle donne, moltissime, che lavorano, curano la casa, tengono insieme rapporti familiari e sociali, corrono da mane a sera e, nonostante questo, hanno ancora voglia di sorridere.

pubblicato l'11 febbraio 2011

mercoledì 24 agosto 2011

DIETRICH BOEFFER


Tra i milioni di vittime della furia nazista, desidero ricordare Dietrich Bonhoeffer. Pastore luterano, docente universitario, teologo, Bonhoeffer, fortemente influenzato dalla teologia dialettica e dal pensiero del grande teologo protestante svizzero Karl Barth, esprime subito una forte opposizione, etica e politica, al nazismo. Il suo approccio teologico è molto innovativo: la Chiesa è, in quanto concreta comunità di uomini. Per questo, ha il dovere di vivere appieno nella realtà e combatterne le distorsioni, per realizzare una società giusta, lontana dalla violenza. Scrive Gianfranco Ravasi: “[Bonhoeffer] esaltava la necessità dell’impegno del cristiano nelle “realtà penultime”, cioè in quelle della storia e dell’azione sociale e politica, per poter accedere alle “realtà ultime” della fede e della pienezza di vita in Dio. Egli sentiva fortemente l’importanza di un confronto col mondo diventato “adulto” e secolare, e questo dialogo doveva avvenire attraverso un cristianesimo “non religioso”, cioè ripensato in una nuova forma, non più sacrale. Queste ed altre tesi, alcune di forte impronta mistica, altre di tonalità esistenziale, contenevano reazioni e fremiti legati alla sua esperienza e al contesto di quel tempo e sono poi state sottoposte a critica”. La lacerante modernità d Bonhoeffer sta nell’aver inaugurato la teologia della “morte di Dio” e al tempo stesso una nuova sofferta ed esistenziale cristologia: “Cristo è per l’uomo la ricerca del Dio assente”. Aveva scritto Friedrich Nietzsche ne “La Gaia Scienza”: “Dio è morto. Dio resta morto. E noi l'abbiamo ucciso. Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?”. Nietzsche affermava la “morte di Dio”, nel senso che l'uomo non sarà più capace di credere in qualunque ordine cosmico quando riterrà che non ne esiste uno. La morte di Dio condurrà, secondo Nietzsche, non solo al rifiuto della credenza in qualsivoglia ordine cosmico o fisico, ma anche al rifiuto dei valori assoluti stessi - al rifiuto di credere in un'oggettiva ed universale legge morale che lega tutti gli individui. Piuttosto, per Bonhoeffer Dio non è assente, ma nascosto, e la storia umana è un susseguirsi di balenanti sue apparizioni e rivelazioni, di segni misteriosi, di tracce certe anche se spesso indecifrabili della sua presenza. Niente mise in questione la fede di Bonhoeffer. Fu arrestato dalla Gestapo, imprigionato e ucciso mediante impiccagione, nel 1945. un mese prima della sconfitta del Reich. Scrisse di lui più tardi uno dei medici del lager: “Mi ha scosso nel profondo… Nei quasi 50 anni di pratica medica, non ho mai visto morire allo stesso modo, un uomo consacrato al Signore”. In una sua lettera dal carcere, Bonhoeffer scrisse: “Quando si è rinunciato del tutto a fare qualcosa di se stessi: un santo, un peccatore convertito o un uomo di Chiesa, un giusto o un ingiusto, un malato o un sano, allora ci si getta interamente nelle braccia di Dio, allora si prendono finalmente sul serio non le proprie, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nei Getsemani e, io penso, questa è fede; e così diventiamo uomini, diventiamo cristiani”. Anche chi non ha fede non ha problemi a riconoscersi nella forte tensione morale, nella profonda ricerca della verità di Dietrich Bonhoeffer.

pubblicato il 4 febbraio 2011

PERSECUZIONE E MODERNITA’

Una legge dello Stato italiano ha stabilito che il 27 gennaio - data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz - si celebri il Giorno della memoria, “al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. La Shoah non nacque dal nulla. In Germania, il regime nazista progettò e mise in opera scientificamente lo sterminio del popolo ebraico, e dei portatori di handicap, degli omosessuali, degli zingari, premessa alla costruzione di un vero e proprio ordine inedito, che avrebbe spazzato via la vecchia Europa, successivamente alla conquista militare, costruendone un’altra, basata sull’egemonia razziale e sulla edificazione di un continente in cui la piramide sociale sarebbe stata sostenuta da un rigido sistema di caste. Non è superfluo ricordare come, in una moderna prospettiva scientifica, le “razze” non esistano: la dimostrazione della completa irrilevanza cognitiva della nozione di “razza”, già abbozzata intorno agli anni ’40, è stata ulteriormente rafforzata dalle ricerche sul Dna. Ma è significativo che, nonostante la confutazione scientifica, il razzismo continui ad esistere come concreto fenomeno intellettuale e sociale, prodotto da processi storici di lunga durata e intrecciato al funzionamento della società moderna, che inventa le “razze” e produce discriminazioni. Il sistema totalitario nazista e fascista mise in atto un’operazione di “costruzione dei diversi”, creando, anche mediante l’utilizzo alquanto efficace dei mezzi di comunicazione di massa, un’immagine artificiale e stereotipata dei gruppi umani che si intendeva escludere dalla cittadinanza, additandoli come dei pericolosi “nemici”, per rafforzare il modello idealizzato della “razza superiore”. Questa costruzione di un immaginario razzista fu terreno fertile per le successive persecuzioni, per le deportazioni, l’annientamento, la Shoah. Giova ricordare che la Repubblica Sociale Italiana, dopo l’8 settembre, collaborò attivamente con il Reich nazista alla persecuzione ed alla deportazione, e che in Italia, a Trieste, fu istituito – solo triste esempio, al di fuori della Germania e dei paesi dell’Est occupato – un campo di sterminio, con camera a gas e forni crematori: la Risiera di San Sabba. I piani di deportazione condussero oltre 7000 ebrei italiani prima nei campi di concentramento italiani e poi in quelli tedeschi, dove la maggior parte venne sterminata. Precedentemente, c’era stato il razzismo “coloniale” (la guerra di Etiopia è del 1935-36), e la “politica della razza”, necessaria alla costruzione della “coscienza nazionale”, portò al corpus delle infami “leggi razziali” del 1938: espulsione degli ebrei stranieri dal paese, cacciata dalle scuole di tutti gli ebrei sia come insegnanti che come allievi, divieto ai matrimoni misti, eliminazione degli ebrei dalle industrie, dai commerci e dalla pubblica amministrazione. Le vessazioni crebbero e si ampliarono, finché si giunse,come già detto, alla deportazione ed allo sterminio. La Shoah è legata inestricabilmente alla logica interna della modernità occidentale: paura dei fenomeni nuovi, “razionalizzazione” delle differenze, sino alla loro negazione, processi di burocratizzazione. Il nostro mondo in perenne trasformazione, attraversato da crisi culturali, sociali ed economiche e da grandi problemi di convivenza tra culture ed etnie, non può dirsene al riparo.

pubblicato il 28 gennaio 2011

GIOVINEZZA E FELICITA’


“Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia …”. Di cosa parliamo, quando parliamo di gioventù? Ed è così scontato, che gioventù e felicità siano, per così dire, sinonimi, come potrebbe suggerirci un intero apparato mediatico e semantico dei nostri giorni? “Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita», scriveva Paul Nizan, un intellettuale di grande spessore politico e filosofico, travolto dalle vicende del secolo scorso e morto, trentacinquenne, nella battaglia di Dunkerque. Nelle sue opere parla di giovani, in lotta contro la società, contro i modelli imposti, alla ricerca di un senso che indirizzi le loro energie e il loro pensiero verso un futuro degno di essere vissuto. Di recente, Alberto Bevilacqua ha commentato una edizione delle lettere che il filosofo danese Søren Kierkegaard scrisse a Regina Olsen: un legame molto importante, che, comunque, Kierkegaard ruppe assai presto. Commenta Bevilacqua: “Per lui, l' amore che continuerà a torturarlo, resta un contenitore che, nel sottofondo, mantiene intatte le emozioni sentimentali, mentre si colma in superficie di motivazioni d' altra natura, creando appunto un addebito di estraneità, ancorata alla super-razionalità dei famosi tre punti del filosofo: estetico, etico e religioso. Questa situazione, in parte abnorm e, rispecchia il disagio che corre fra i giovani contemporanei. Pur provando sentimenti di relazione, essi sono sempre più spesso impossibilitati a darvi assolutezza a causa di un' educazione a doppio taglio: o ricevuta caoticamente in famiglia, o simulata pericolosamente in una società sbandata”. Qui lo scrittore mette in luce, come lo stesso Nizan, un tema davvero centrale nell’esistenza giovanile: lo scontro tra ciò che si desidera e ciò che si è, tra ciò che si crede di desiderare e ciò che gli altri, la società, richiedono. Tornando al discorso della felicità, questa non pare legarsi alla gioventù in maniera scontata. Tanto più se pensiamo all’ordine simbolico della felicità, come è messo in luce da Walter Benjamin. Scrive il pensatore tedesco: “Mentre l´innocenza ingenua, grande, vive a diretto contatto con tutte le forze e le forme del cosmo, e trova i propri simboli nella purezza, nella forza e bellezza della forma, per l´uomo moderno l´innocenza è quella dell’omuncolo, è un´innocenza, diminutiva e microscopica, che assume la forma di un´anima che non sa nulla della natura, che si vergogna del suo stato e non osa riconoscerlo neanche davanti a se stessa, come se […] l´uomo felice fosse un guscio troppo vuoto, per non sprofondare di vergogna alla propria vista. E quindi il senso moderno della felicità è insieme piccino e segreto, e ne è derivata l´idea dell’anima felice che ripudia se stessa con un´attività continua, e coartando artificialmente i propri sentimenti”. Tratto della modernità è “un senso piccino e segreto” della felicità. Troppo poco, per chi, giovane, ha tutta la vita davanti.

pubblicato il 21 gennaio 2011

martedì 23 agosto 2011

Cibo del corpo, cibo dell’anima

Se il cibo è una componente fondamentale della vita dell’essere umano, perché, come scriveva il grande filosofo Ludwig Feuerbach, “Der Mensch ist, was er ißt”(“l’uomo è ciò che mangia”), tra il cibo emerge, con fragrante evidenza, il pane. Si narra che gli dei dell’Olimpo si nutrissero di nettare ed ambrosia, che sgorgavano da uno dei corni della capretta Amaltea, nutrice di Zeus. Cibi che assicuravano immortalità e eterna giovinezza: e ci fu un’epoca, narra Esiodo, in cui anche gli uomini erano ammessi al banchetto degli dei. Teleclide, V secolo a.C., con una certa verve comica così ricorda quell’età dell’oro: “ Nei ruscelli scorreva il vino... Il pesce entrava nelle case, si faceva friggere da solo e si serviva a tavola. Un fiume di minestra scorreva lungo i letti, trascinando pezzi di carne calda .... Pane d’orzo e di frumento facevano a gara davanti alla bocca ...e le focacce si travolgevano in un tumulto guerriero attorno alle mascelle”. Pare quasi di leggere uno di quei racconti medievali del Paese di Cuccagna, luogo mitico in cui, peraltro, il pane non si mangiava. Eppure era l’alimento base della società medievale, e da solo forniva la maggior parte delle calorie ingerite quotidianamente dai più poveri. Forse per questo, i ghiottoni di Cuccagna (ricordate il quadro di Pieter Bruegel il Vecchio? Il sogno degli affamati: stramazzare a terra satolli, sotto una tavola che ancora presenta tracce di cibo e di bevande), lo snobbavano. Il pane svolge anche una fondamentale funzione civilizzatrice: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, recita la preghiera, e, nel secolo VII, Isidoro di Siviglia, con ardita etimologia, afferma che il pane si chiama così perché accompagna ogni tipo di alimento, e in greco pan significa tutto. D’altro canto, nel “Decameron” del Boccaccio Cuccagna equivale al paese di Bengodi, con il suo vulcano di pasta e formaggio. In un anonimo “Capitolo” modenese del Cinquecento, il Paese di Cuccagna è localizzato tra le terre scoperte al di là dell’Oceano. Panis Angelicus è la penultima strofa dell’inno Sacris solemniis, scritto da Tommaso d’Aquino per una liturgia completa che riguarda la solennità del Corpus Domini. Qui prevale il tema del corpo di Cristo: “Il pane degli angeli diventa pane degli uomini […] qual meraviglia! il servo povero e umile mangia il Signore”. Eppure, il misticismo, soprattutto femminile, sceglie il digiuno come via per la santità: quella che è stata definita “la santa anoressia”. Aristotele ci ricorda, nella Metafisica, che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari, in quanto la sua natura è “per molti aspetti schiava”. Assumendo il cibo, assumiamo il mondo, e di conseguenza l’atto di mangiare «è sia banale, sia carico di conseguenze potenzialmente irreversibili», scrive C. Fischler. Oggi, le rivolte del pane in Algeria ed in Tunisia riportano l’attenzione alla fame, alla povertà, a ciò che Karl Marx chiamava la materialità dei bisogni umani. Se è vero che non di solo pane si vive, è innegabile che “per poter ‘fare storia’ gli uomini devono essere in grado di vivere”.

pubblicato il 14 gennaio 2011

domenica 21 agosto 2011

PORTE

Il grande storico romano Tito Livio ricorda che il re Numa Pompilio aveva dedicato un passaggio coperto, una vera e propria porta, a Giano, dio dei “passaggi”, come testimonierebbe una radice indoeuropea rintracciabile nel suo nome; dio “mattutino”, poiché il mattino è la porta del giorno; Giano bifronte, Giano procreatore. Poiché bifronte è la vita, che si apre tra due passaggi, quello nativo del venire al mondo e quello finale della morte. Pare che sia rintracciabile nel suo nome anche una radice verbale che rimanda all’”andare”, perché, secondo Macrobio, “il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna”. Tema, quello dell’eterno ritorno, il cui grande esegeta è stato Friedrich Nietszche. Ha scritto Emanuele Severino: “[…] se c'è un Dio, non ci può essere il divenire consistente nella creatività del volere [ma se] intendiamo il divenire come un processo in cui il passato è l'immodificabile, l'irrecuperabile, l'indominabile da parte della volontà, allora la volontà si trova di fronte al passato come di fronte a un Dio, e anzi l'immutabilità del passato presenta i tratti più caratteristici del divino, appunto la sua intoccabilità: il passato è l'ormai intoccabile […] sul fondamento di questa fede, come è impossibile un qualsiasi Dio, così è impossibile un passato il quale si costituisca come immodificabile”. Ci sono porte tra passato, presente e futuro, che la razionalità non intuisce, e la soccorre l’immaginazione. “L'immaginazione non è uno stato mentale: è l'esistenza umana stessa”. Sono versi di William Blake, poeta inglese, la cui scrittura densa di metafore apre una selva di significati. “Tigre! Tigre!/ Fiamma splendente/Nelle notturne foreste/ Quale mano, quale occhio immortale poté formare/La tua simmetria terribile?”. Anche Blake parla di porte: “Se le porte della percezione fossero sgombrate, ogni cosa apparirebbe com'è, infinita”. È forse il segno più immediato della semantica legata alle porte: lo schiudersi di un orizzonte che può darsi infinito. Che cosa sono le colonne di Ercole, se non porte? Sono poste a guardia di uno stretto che, come molti altri, viene definito "bocca": la bocca che è inizio della navigazione all'esterno e fine di quella all'interno. Ancora, fine e inizio, nascita e morte. Ne brano che citavamo all’inizio, Livio prosegue narrando che, in periodo di guerra, la porta veniva tenuta aperta, perché il dio doveva uscire per poter assistere i soldati romani; mentre, in Tempo di pace, era chiusa, perché il dio rimanesse nella città. Orfeo, grazie alla musica, oltrepassa le porte degli inferi per cercare l’amatissima sposa Euridice. Ade concede ad Orfeo di riportare Euridice con sé, ma a un patto: lui non avrebbe mai dovuto voltarsi a guardarla prima di arrivare nel mondo dei vivi (così il Poliziano: "Io te la rendo, ma con queste leggi: / che lei ti segua per la ceca via/ ma che tu mai la sua faccia non veggi / finché tra i vivi pervenuta sia!"). Ma Orfeo teme di perderla, ed è preso da irrefrenabile desiderio di vedere la sua amata: si volta, per un attimo, ed Euridice impallidisce, si allontana, irrimediabilmente. Orfeo si dispera (“Che farò senza Euridice?”, così canta nell’opera bellissima di Gluck), ma ha oltrepassato una soglia severissima, che non ammette pietà. Ancora una volta, la porta come soglia tra vita-morte, morte-vita.

pubblicato il 7 gennaio 2011

sabato 20 agosto 2011

Amicizia e dialogo


Il poeta e critico letterario Arturo Graf ebbe a dire che chi ha un vero amico può dire di avere due anime. Una efficace metafora per significare la grande ricchezza umana che l’amicizia dona. L’amicizia riveste molta importanza nel mondo antico, come viene ben espresso dalla grande letteratura: figure come Ulisse e Diomede, Achille e Patroclo, o, per spostarsi in ambito romano, Eurialo e Niso, Enea e Pallante sono diventati archetipi di questo grande sentimento umano. Un sentimento, un concetto, uno stato d’animo, una felicità che anche la filosofia ha indagato. Socrate lega l’amicizia alla psyché, all’anima, e la sottrae alla dimensione meccanicistica che aveva nel pensiero dei presocratici, come forza cosmica positiva, e alla caratterizzazione di Pitagora. I pitagorici coltivavano un’amicizia incondizionata con i loro pari. L’amicizia pitagorica era infatti basata sull’uguaglianza, ed esigeva fedeltà assoluta: il grande poeta tedesco Schiller, nel secolo XIX, scrive una ballata, “La garanzia”, che prende spunto da un racconto pitagorico di una amicizia fedele a se stessa, tra uomini avvinti nella trama di un tirannicidio. Sarà lo stesso Schiller a scrivere: “Era senza amici, il grande signore dei mondi: sentì una mancanza e per ciò creò gli spiriti, che fossero felici specchi della sua felicità. L’ essere supremo non trovò nulla che gli fosse uguale: dal calice dell’ intero regno degli esseri sale spumeggiando verso di lui la sua infinità”. Per Platone, l’amicizia, a cui dedica il dialogo “Liside”, rimane indefinita nella sua essenza (e, d’altra parte, la vera finalità del dialogo socratico –platonico sta nel non dare risposte, ma nel suscitare altre domande). Attraverso le parole di Socrate, Platone però giunge ad alcune affermazioni: gli amici sono una guida verso la sapienza, e l’ amicizia può solo instaurarsi tra persone integre e corrette. Aristotele affronta il tema in molti luoghi della sua opera, in primis nell’”Etica Nicomachea”. L’amicizia è una passione, così come lo sono il desiderio, la paura, l’invidia, la gioia, l’odio, la gelosia, la pietà. Ma è anche una disposizione, uno stato dell’anima generato da un sentimento di affetto; uno stato contraddistinto dalla reciprocità, per cui l’amicizia può darsi solo tra esseri animati. Si ama per tre ordini di motivi: il piacere, l’utile e il bene, ma solo l’amicizia fondata sul bene è autentica virtù. Amare una persona per il piacere che questa procura, o per l’utilità che ne proviene, è un genere di philia imperfetto; chi invece desidera effettivamente il bene dell’essere amato possiede l’amicizia perfetta, l’amicizia come virtù, propria delle persone eccellenti. Questo tipo di rapporto costituisce un ingrediente essenziale della felicità, in quanto consiste nell’emozione di amare. Nel libro IXdell’”Etica Nicomachea” Aristotele parla di un’amicizia fondata sull’insegnamento della filosofia e la considera un caso di philia basata sulla virtù, cioè l’amicizia per eccellenza. La cosa più piacevole in assoluto è filosofare con gli amici. L’amicizia in quanto emozione (pathos) e sentimento di affetto può quindi accrescere il grado di felicità che la filosofia assicura. Per venire a tempi a noi più vicini, la grande filosofa Hannh Arendt rilegge il concetto di amicizia alla luce del valore politico, quale ci proviene, appunto, da Aristotele, secondo il quale l’amicizia tra i cittadini è “una delle condizioni di benessere della città”. Arendt aggiunge: “per i Greci l’essenza dell’amicizia consisteva nel discorso. Essi sostenevano che solo un costante scambio di parole poteva unire i cittadini in una polis […]  Chiamavano filantropia questa umanità che si realizza nel dialogo dell’amicizia, poiché essa si manifesta nella disponibilità a condividere il mondo con altri uomini”. L’amicizia presuppone, quindi, la nozione di umanità e insieme il radicarsi nel mondo. Dove si realizza, infatti, un’amicizia pura lì si “produce una scintilla di umanità in un mondo divenuto inumano”. “Oggi siamo abituati – continua Arendt – a vedere nell’amico solo un fenomeno di intimità, in cui gli amici aprono la loro anima senza tener conto del mondo e delle sue esigenze”, ma questo colloquio deve aprirsi al dialogo che “per quanto intriso del piacere relativo alla presenza dell’amico si occupa del mondo comune, che rimane ‘inumano’ in un senso del tutto letterale finché delle persone non ne fanno costantemente un argomento di discorso tra loro”. L’amicizia è: «essere e pensare con la mia propria identità dove io non sono; non generica immedesimazione, né accattivante empatia, ma dal sé fare spazio all’altro, con il proprio concreto esistere intraprendere il viaggio politico e pubblico verso la diversità in me e fuori di me, accettando il cambiamento di ciascuno/a che ne deriverà”. L’amicizia èquindi un “dono […], con l’apertura al mondo,infine con l’amore genuino per il genere umano», tale per cui possiamo “dialogare con un maomettano convinto, un ebreo pio o un cristiano credente”. Ci sembra che sia un bel viatico per l’anno nuovo.

pubblicato il 31 dicembre 2010

Montagne sacre e profane


La montagna è un simbolo complesso. Nella mitologia dell’antica Grecia, le montagne erano figlie di Gea, la Terra, ed erano luoghi sacri. Per la loro struttura, sono un tramite con gli Dei che risiedono nei cieli. Su una montagna – l’Olimpo- dimorano gli dei. Dopo le devastazioni del leggendario diluvio, al quale sopravvissero solo Deucalione e Pirra, la specie umana cresce nuovamente sulle cime dei monti, da cui guarda le pianure allagate. La coppia getta dietro le spalle alcune pietre – le ossa della montagna– e ne nascono uomini e donne nuovi. Gli inni omerici ci ricordano che le cime delle montagne sono sacre al dio Pan. La montagna Menalo, in Arcadia, figlia del Cielo e della Terra, era considerata regina, madre di re. Zeus schiaccia i Giganti ribelli sotto il peso delle montagne. Su una montagna si ferma l’arca di Noè, dopo l’altro grande diluvio delle storie del mondo, quello della Bibbia, e su una montagna Mosè riceve le tavole della Legge divina. Si pensa che gli “Dii montenses” di alcune iscrizioni latine siano quelli che sovrintendevano ai sette colli di Roma. Nella mitologia persiana, Aura-Mazda, il dio delle luce, comincia la creazione dell'universo con i Feveres, idee invisibili degli oggetti visibili che sono situati nel cielo come eterni vigilanti contro il male personificato da Ahriman, per proteggere gli uomini giusti. Crea in seguito il cielo e la terra, e il monte Alborj, dove fissa la sua residenza. Per venire a giorni a noi più vicini, Pirandello, alla sua morte, lascia incompiuta un’opera, “I giganti della montagna”, dal testo e dalla struttura singolari ed affascinanti. Giorgio Strehler la allestisce in varie occasioni, e ne scrive: «C'è un tema profondo, ricorrente, nella grande cultura greca-europea: quello dei mitici Giganti che vogliono impadronirsi del potere celeste, universale. Ma vengono sconfitti, proprio quando sembrano aver vinto. Questa radicata, inquietante presenza tocca l'ultimo Pirandello che in quest'opera incompiuta, la rappresenta nel teatro e nella poesia”. La scalata al cielo dei Giganti avviene sovrapponendo le montagne. “La montagna incantata” è il titolo di un’opera tra le più complesse di Thomas Mann: una fondamentale riflessione filosofica sulla malattia e la morte, sul rapporto tra cultura e natura. La storia di cui si parla ne “La montagna incantata” è una età che «non si può misurare in giorni né in lune, in una parola essa non deve veramente la sua maggiore o minore antichità al tempo (…) e la sua estrema antichità è data dal fatto che essa avviene prima del limitare di un certo abisso che ha interrotto la vita e la coscienza dell’umanità (…)», scrive Thomas Mann. Antica come le ossa del mondo, le montagne che ci guardano da tempi immemorabili.

pubblicato il 24 dicembre 2010

Legge morale e responsabilità


Una delle questioni più dibattute del pensiero di Immanuel Kant, dallo stesso autore e, in seguito, da generazioni di critici, prende le mosse da un aspetto della filosofia morale: la libertà dell’essere umano di compiere azioni contrarie alla legge morale. I fondamenti dell’etica kantiana non permettono la spiegazione del male morale, né giustificano in alcun modo la sua imputazione a chi agisce. Riflettendo sul rapporto tra mondo sensibile e mondo della libertà, con la Critica della ragion pura Kant li vuole distinti e contrapposti, governato l’uno dalla legge naturale, l’altro dalla legge della libertà. L’azione libera risulta, così, essere un prodotto dalla causalità della libertà, contrapposta alla causalità naturale, cui sottostanno i fenomeni determinabili nello spazio e nel tempo. Definendo la legge morale come legge di libertà, Kant giunge ad identificare la volontà libera con la volontà conforme alla legge morale. Come si spiega, allora, dal punto di vista morale l’azione malvagia? Essa chiaramente non può essere intesa come prodotto della libertà (la quale dà luogo alle sole azioni conformi alla legge morale); come prodotto del meccanismo naturale, essa, però, non può essere più imputabile al soggetto che la compie, il quale, perciò, non può esserne moralmente responsabile. Del bene non possiamo avere esperienza. Non potremmo mai essere veramente certi che un’azione buona sia realmente morale: essa potrebbe essere semplicemente conforme al dovere. Kant, però, non avanza mai lo stesso tipo di dubbio a proposito dell’azione malvagia. Quando ci troviamo di fronte ad un atto contrario al dovere, non ammette obiezioni rispetto alla sua malvagità. In conclusione, Kant fornisce una solida fondazione solo di ciò di cui non possiamo avere esperienza, il bene: l’azione morale scaturisce dalla libera causalità del soggetto autonomo, al quale può essere di diritto attribuita. Ma non fornisce una spiegazione di ciò di cui, invece, possiamo fare esperienza, cioè della malvagità dell’azione. Qui Kant non stabilisce un principio, in base al quale essa possa essere compresa come frutto della libera scelta del soggetto. Di conseguenza, il soggetto stesso non può esserne ritenuto responsabile. Uno dei fondamenti del pensiero kantiano è di assicurare l’assoluta libertà dell’agire umano e l’assoluta responsabilità dell’essere umano di fronte alle sue azioni, poiché in campo morale non esiste altra istanza normativa per l’essere umano al di fuori della ragione. Siamo quindi di fronte ad un vero e proprio paradosso: il male morale rimane inspiegato e non attribuibile moralmente, pur se fattuale in modo ahimè lampante e incalzante.

pubblicato il 10 dicembre 2010

Segnare, osservare, classificare


Siamo abituati a contrassegnare il nostro territorio con segni, marche, stemmi. Siamo usi a stabilire confini, a
dividere, a separare. Il pensiero olistico fa poco per noi, se il “noi” significa noi appartenenti alla cultura occidentale. La stessa scienza si è formata in contrapposizione a quanto la natura offre al nostro sguardo, nel tentativo di cercare il volto nascosto delle cose. In questa indagine, fatta anche di violenza, la scienza ha utilizzato paradigmi di conquista e possesso, e così, in certo senso, ha perduto il mondo. Non solo: i saperi e le società stesse si sono edificate sul gesto mortifero della conquista e dell’appropriazione. Lo dice il filosofo Michel Serres, secondo cui la stessa agricoltura ha avuto origine dalla presa di possesso di un campo in cui erano sepolti i cadaveri degli antenati. Segnare e percorrere incessantemente. Il dio greco Hermes è messaggero degli dei e sovrintende ai viaggi ed agli incroci; è mentitore, ma premia la sincerità del contadino che non reclama come sua la falce d’oro, narra una sua storia. Dissimula, si traveste, aiuta amori mercenari. Anche in lui è forte il segno della divisione e dell’ambivalenza. Giano è il dio latino degli ingressi, che sono anche uscite, degli attraversamenti. A questo forte e strutturale senso di ambivalenza e di contraddizione la cultura occidentale ha contrapposto una grande ansia classificatoria e ha grandemente valutato l’osservazione. Si legge in un vecchio manuale delle scuole medie: “solo mediante l’osservazione, esercitata attraverso i sensi, noi possiamo raccogliere nel nostro spirito il materiale che, ordinato poi ed elaborato dall’intelligenza, formerà il nostro patrimonio spirituale: precisamente quello che noi manifesteremo parlando o scrivendo. Quanto più copioso ed abbondante sarà questo nostro patrimonio, tanto più ricca e profonda e interessante sarà la nostra espressione”. Il brano prosegue lodando le virtù di una osservazione costante e metodica, paziente ed ordinata, e raccomanda la precisione del vocabolo. Bene: da una parte, oggi, diminuisce il numero delle parole che vengono usate, dall’altra diminuisce la capacità di comprenderne svariate. Invece, le parole sono come le ciliegie, e dovrebbero venire sulle labbra una dietro l’altra, in una sarabanda felice, in un caleidoscopio colmo di faccette. Dobbiamo amare le parole.

pubblicato il 10 dicembre 2010

Un elenco


Anch’io vi farò un elenco, oggi. Un elenco di citazioni, in cui leggere alcuni dei motivi per cui la filosofia è importante, o almeno, in molti la riteniamo importante, o almeno, io penso che sia importante. Cominciamo con una filosofa, Iris Murdoch, che ha lavorato in vari campi disciplinari, utilizzando anche la forma del romanzo e, pure, la forma del dialogo platonico: “Filosofeggiare significa esplorare il proprio temperamento, ma in pari tempo tentare di scoprire la verità”. Un intreccio sintomatico tra dimensione soggettiva e dimensione oggettiva, tra il confronto con la realtà ed il pathos dell’interiorità. I termini che Murdoch utilizza sono “esplorare” e “scoprire”. Troviamo lo stesso valore semantico in Socrate, che, secondo la testimonianza del suo allievo più grande, Platone, diceva: “La vita non sottoposta ad esame non vale la pena di essere vissuta”. Conosci te stesso, infatti: perché, come avrebbe detto molti secoli dopo Jean-Paul Sartre, “L’uomo altro non è se non ciò che fa di se stesso”. Una dimensione potentemente soggettiva, propria di un pensiero filosofico che farà fulcro sulla pratica della libertà. Sulla coppia libertà-dovere lavora la riflessione di Immanuel Kant, secondo cui è necessario ottemperare al dovere morale perché la legge morale è fine a se stessa, ed è dettata dalla ragione. Scrive Kant: “Assicurare la propria felicità è un dovere, perlomeno indirettamente; infatti l’insoddisfazione per la propria condizione di esseri oppressi da molte ansie e bisogni insoddisfatti può facilmente diventare una grande tentazione e trasgredire il dovere”. Per Kant, l’autonomia della morale si fonda sul fatto che l’”imperativo categorico”, quale “forma a priori”, discende direttamente dalla ragione. Scrive infatti: “Ciò che io riconosco immediatamente come legge per me, lo riconosco con rispetto: e questo non è altro che la coscienza della subordinazione della mia volontà a una legge, senza alcuna mediazione della sensibilità”. Non ha quindi “valore morale” l’azione che deriva da una “causa” esterna alla ragione, ma non l’ha neanche quella che deriva da una “finalità”.“E’ quindi la legge morale della quale diventiamo consci (appena formuliamo le massime della volontà), ciò che ci si offre per il primo e che ci conduce direttamente al concetto della libertà, in quanto la ragione presenta quella legge come un motivo determinante che non può essere sopraffatto dalle condizioni empiriche perché del tutto indipendente da esse”. Con la posizione kantiana che postula lo stretto rapporto tra dovere e libertà chiudiamo queste brevi note sulla essenzialità della filosofia per la vita. Essenzialità cognitiva, pratica, debitrice al dovere, alla libertà ed, anche, al piacere. Non senza, però, aver letto questi versi di Thomas Stearns Eliot: “Non cesseremo di esplorare/e alla fine della nostra esplorazione/Arriveremo dove abbiamo cominciato/E per la prima volta
conosceremo il luogo”.

pubblicato il 3 dicembre 2010

martedì 16 agosto 2011

LE ACQUE


Fin dal suo sorgere, la filosofia si è posta domande sull’origine e sul destino delle cose. Il pensiero si rivolse, in prima battuta, ai quattro elementi: terra, aria, fuoco, acqua. Elementi che sono i mattoni del nostro mondo, fonti di vita ma anche di distruzione. Leggiamo nella “Metafisica” di Aristotele: "La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che princípi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre”. Prendiamo uno di questi elementi, l’acqua: secondo il filosofo greco Talete, la Terra galleggia sull'acqua, su un Oceano infinito. L’acqua è l’arché, il principio di tutte le cose. Se vogliamo, tutti noi nasciamo nell’acqua del grembo materno. Nel mito greco, le ninfe Naiadi, divinità delle acque dolci, erano benefiche divinità della salute, e possedevano facoltà guaritrici e profetiche. Le ninfe Oceanine vivevano nei mari, le Nereidi nel Mediterraneo. In tutte e culture, l’acqua è simbolo di vita e di fecondità. L’acqua del diluvio universale cancella le colpe dell’umanità, un arcobaleno sulle acque suggella il nuovo patto tra Dio e gli uomini. Il battesimo è un lavacro dello spirito, che, rinnovellato, entra nella vita di Dio. Sirene e melusine, creature delle acque, affascinano ed ammaliano. Anche in India e a Babilonia, il mondo nasce da un oceano primordiale. È interessante che, come nel pensiero di Talete, questo oceano abbracci la terra, quasi a proteggerla, contenerla e nutrirla dei suoi balsami. Acheronte, Stige, Cocito, Flegetonte e Lete sono i cinque fiumi che, secondo la mitologia greca ricordata da Dante nella “Commedia”, solcano l’oltretomba. Nell’antico Vicino Oriente, una distesa d’acqua era posta al confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Essa portava il nome di Apsû ed era la principale fonte di vita del mondo. Troviamo l’Apsû nell’Enuma elish (“Quando in alto”), il celebre poema in lingua accadica del II millennio a.C. che narra della creazione dell’universo. Sempre nel mito greco, la ninfa nereide Teti, madre di Achille, immerge il figlio appena nato nelle acque del fiume Stige per assicurargli l’immortalità. Rimarrà fuori il tallone, e la freccia di Paride, colpendolo, ne provocherà la morte. Più tardi, nel Libro della Scala di Maometto - che narra del viaggio intrapreso dal profeta dell’Islam nel mondo dell’oltretomba - l’arcangelo Gabriele accompagna Maometto nel Paradiso “inferiore” per mostrargli le pene destinate ai peccatori. Poco prima di entrarvi l’angelo mostra al profeta «un’acqua che era più tersa e più chiara di ogni altra acqua, e assai più dolce del miele». L’angelo spiega la natura di quell’acqua: «Sappi che è ben fortunato chi beve l’acqua di questa chiusa; perché non se ne può bere tanta da stare male o da doverla rigettare. E quelli del Paradiso desiderano bere quest’acqua più di ogni altra che in esso si trovi. Ma nessuno ne beve se non quelli che credono in te, Maometto, che non ti abbandonano per alcun altro profeta che sia stato o che in futuro verrà». Come si vede, l’acqua è un elemento fondante delle religioni, dei miti cosmogonici, dei rituali di purificazione. Piogge benefiche, sorgenti, ruscelli: i luoghi sacri spesso sorgono vicino a corsi d’acqua e fonti, luoghi freschi, ombreggiati, pacifici. L’acqua rinfresca e nutre, ma è capace di erompere con violenza, quando e’ rotto il suo equilibrio nel territorio. Corsi d’acqua e laghi sono all’origine di molte leggende; una a noi vicina nasce dal corso dell’Adda, che confluisce nel fiume Po a monte di Cremona, e che ha dato origine, nell’antichità, alla leggenda di un vasto territorio paludoso, il lago “Gerundo”, infestato, dicono le leggende, da draghi e aliti pestilenziali e mefitici. "Sull'acqua comanda Iddio ... non si può togliere l'acqua alla terra che ha sempre bagnato; è un sacrilegio; è un peccato contro la Creazione", scrive Ignazio Silone in “Fontamara”. Aqua fons vitae. Acqua bene comune..

pubblicato il 26 novembre 2010

lunedì 15 agosto 2011

FILOSOFIA E SCIENZA


Anche se, nell'epoca moderna, filosofia e scienza naturale sono sempre state considerate come due discipline
ben distinte, in verità esse sono nate e si sono sviluppate insieme: il termine stesso “filosofia”, fin dall'origine, ha indicato il “desiderio di sapere”. La parola è di origine greca (desiderio - “filia” - di sapere - “sofia”), e venne usato per la prima volta dagli storici, che facevano appunto “storia”, o “istoria”, termine che in greco vuol dire letteralmente “le cose viste”. Ragionare sulle cose viste e tentare di capire cosa esse siano rappresenta il “desiderio di sapere”, di saperne cause e motivazioni. Platone dice una cosa splendida: la filosofia è la figlia della meraviglia; essa è la curiosità, è il non accettare le cose come sono e il tentare di comprenderle. Oso pensare che la successiva divaricazione tra filosofia e scienza, tra speculazione intellettuale e ricerca, nasca forse dall’affievolirsi di questo senso di meraviglia, in direzione della indagine puntuale. Per venire a tempi a noi più vicini, il grande filosofo Karl Jaspers, esaminando il rapporto tra filosofia e scienza, scrisse che, tra i due campi del sapere, esiste “un rapporto per nulla equivoco […] Anzitutto sono divenuti chiari i limiti della scienza”. Jaspers ne individua alcuni, tra cui è particolarmente interessante il seguente: “la conoscenza scientifica non è in grado di dare nessuna direzione per la vita. Non stabilisce valori validi; la scienza come scienza non può guidare la vita; per la sua chiarezza e decisione, essa rimanda a un altro fondamento della nostra vita”. Ma, ribadisce Jaspers, “nello stesso tempo, insieme coi limiti della scienza, si chiarisce l’importanza positiva e l’indispensabilità della scienza per la filosofia […] La via della scienza è indispensabile per la filosofia, perché soltanto la conoscenza di questa via impedisce che un’altra volta si affermi, in un modo poco chiaro e oggettivo, esservi nella filosofia la conoscenza obiettiva delle cose, che ha invece la sua sede nella ricerca metodicamente esatta”. Quindi, indipendenza del principio scientifico, indipendenza del principio filosofico, ma loro interdipendenza. E veniamo ad un pensatore a noi più vicino, il grande matematico Imre Toth: “La filosofia non è una scienza. Limitiamoci ad un solo argomento di prova: uno dei problemi della filosofia è trovare una risposta, anzi cercare una risposta alla questione che cos’è la verità […] Ma la nozione di verità non si applica alla filosofia […] Si parla della verità, ma il concetto di verità non si applica alla filosofia […] La filosofia non è una scienza, ma la domanda che voglio porre è: perché tutto deve essere scienza?”. La filosofia non è una scienza, ma è qualcosa forse di più importante, “perché tutte le culture, anche prescientifiche, hanno già pensieri che devono essere classificati, interpretati, come pensieri filosofici. Non è una scienza ma è un sapere”, che ha come oggetto il soggetto, il soggetto puro stesso. Il “conosci te stesso” socratico: qui siamo tornati, al γνωθι σεαυτόν. Come diceva ancora Jaspers, “il pensiero filosofico è tuttavia sempre originale e deve in ogni epoca realizzarsi storicamente sempre sotto nuove condizioni”..

pubblicato il 19 novembre 2010

Le parole sono importanti


Oggi vorrei parlarvi di un piccolo, recente libro. Ne è autrice Gabriella Ripa di Meana, psicoanalista, ed il titolo è: “Dialogo immaginario con Jacques Lacan”. Lacan, un gigante del pensiero, non solo psicoanalitico, lavorò molto sull'insegnamento originario di Freud. La rivoluzione freudiana consistette, detto in maniera sicuramente semplicistica, nel mettere al centro dell’esperienza umana l’inconscio, che diventa la vera voce dell’individuo. L'inconscio, secondo Freud, è "strutturato come un linguaggi ", è "desiderio che diviene linguaggio" e, per analizzare l'inconscio, è fondamentale la decifrazione di tale linguaggio. Indagare l’inconscio per sapere di più sui nostri desideri, sulle paure, su noi stessi. Lacan dirà che l’obiettivo dell’analisi e della terapia psicoanalitica non è il potenziamento dell’Io, cioè della la dimensione conscia dell’individuo, ma consentire l'accesso all’inconscio ed alla sua verità, che non è posseduto dall'Io. Se lasciamo che parli solo l’Io, non emergerà mai la verità del soggetto, poiché l’Io è una costruzione culturale e sociale. Per lo psicoanalista Johannes Cremerius, lo scopo della terapia psicoanalitica non consiste nella guarigione intesa come adattamento alle esigenze sociali, poiché "la via è lo scopo", la vita è creazione, non adeguamento, e la via psicoanalitica comporta un'esperienza di "illuminazione" di sé e del mondo. Il paziente non è un malato, ma una persona impegnata in un difficile percorso esistenziale. Non gli serve una ricetta che lo espropri della competenza su di sé e sulla propria vita, ma qualcuno che lo accompagni lungo questa strada. Nel libro di Gabriella Ripa di Meana c’è una pagina illuminante. Nell’immaginario dialogo (ovviamente basato sulla gran mole di testi e interventi che lo psicoanalista ci ha lasciato), Lacan ad un certo punto dice: “La psicoanalisi è un sintomo. È il sintomo con cui la civiltà reagisce al trionfo della scienza. In effetti, si occupa di quanto resta fuori dal discorso scientifico: derive, rimasugli, frammenti. Si perde nei sogni, negli errori, negli atti mancati […] La psicoanalisi accoglie una domanda inevasa, un’urgenza nascosta nella sofferenza psichica: la domanda di riuscire a arrangiarsi col reale senza annullare la propria soggettività”. La psicoanalisi è linguaggio, parola. Senza le parole non esisterebbe nulla. Neppure il dolore, neppure il piacere: sono le parole a dare il senso alle cose. Per questo, le parole sono importanti.

pubblicato il 12 novembre 2010

L’imperio della forza

Nell’ultima “civetta” ho accennato alle posizioni sulla forza e la violenza di Simone Weil, una grande filosofa francese. Una donna fisicamente fragile, che chiedeva molto alla propria ferrea volontà ed al proprio corpo, e che pagò questo farsi fiamma, morendo a soli trentaquattro anni. Fece scelte di vita coraggiose e autentiche: volontaria – anche se non combattente, anzi rivendicando compiti di cura - nelle Brigate internazionali antifranchiste in Spagna nel 1936, ad un certo punto abbandonò l'insegnamento della filosofia, per andare a lavorare come fresatrice nelle Officine Renault. Nonostante la brevità della sua vita, Simone Weil ha scritto molto, e l'edizione integrale delle sue opere, pubblicata da Gallimard, è composta da sedici volumi. Oggi desidero parlarvi di due brevi testi sulla cultura dei Catari, scritti nel 1942: “L'agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico” (la Chanson de la Croisade contre les Albigeois o Cançon de la crosada) e “L'ispirazione occitanica”. Perché i Catari? Weil, nel 1941, poco prima di fuggire, lei ebrea, da Parigi invasa dalle truppe di Hitler, aveva scritto un importante saggio su “L’Iliade, poema della forza”, in cui sosteneva che il culto della forza non fosse solo la radice oscura e la pratica dell´hitlerismo, ma serpeggiasse nel fondo ideale e ideologico delle politiche e delle società d´Occidente. Non mi dilungherò sull’eresia catara: basti dire, insediatasi nello splendido contesto della cultura occitanica e trobadorica, fu oggetto delle persecuzione cattolica, fino a giungere alla crociata, bandita da papa Innocenzo III, che vide atroci violenze. L’eresia fu schiacciata nel sangue: per tutte, la strage di Béziers, nel 1209, in cui si stima che fossero uccise circa 20.000 persone (le antiche cronache narrano che fosse chiesto all’abate di Citeaux, comandante delle forze papali, chi dovesse essere risparmiato, nella città assediata in cui c’erano anche donne, anziani, bambini, e che egli avesse risposto: “Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi!”), e il massacro di Marmande nel 1219, descritto così nella Chanson: “Corsero nella città [le armate dei Cattolici], agitando spade affilate, e fu allora che cominciarono il massacro e lo spaventoso macello […] Il sangue scorreva dappertutto per le strade, nei campi, sulla riva del fiume”. Simone Weil prende le mosse da qui, da questo terribile imperio della forza, per narrare l’agonia della civiltà della lingua d’oc, “uccisa dalle armi”. Trova, nella Chanson, una “mescolanza di passione ed imparzialità che crea il tono delle grandi opere”. "Se vinse l'intolleranza, fu solo perché le spade di quelli che avevano scelto l'intolleranza furono vittoriose... L'Europa non ha mai più ritrovato allo stesso livello la libertà spirituale perduta per effetto di questa guerra....Il paese d'oc, nel XII secolo, era lontano da ogni lotta di idee. Le idee non vi si scontravano, esse vi circolavano in un ambiente in certo qual modo continuo. E' questa l'atmosfera propizia all'intelligenza: le idee non sono fatte per lottare". La violenza tende all’annientamento della presenza umana: la forza è irreale, per quanto reali e devastanti siano i suoi effetti, perché produce un cumulo di menzogne. La forza “de-realizza”, “la violenza stritola quelli che tocca”, “uccidere è sempre uccidersi”: “la forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa”. La cosificazione dovuta alla forza può essere guarita solo dall’Amore, che fa guerra alla guerra. Volendo semplificare un pensiero lucido, complesso, tagliente, possiamo dire che, per Weil, “due forze regnano sull'universo: luce e pesantezza”. Ogni bassezza prodotta dall’essere umano, è pesantezza. La luce è la “grazia”, moto ascendente e discendente, presente nell'induismo, nel buddhismo, nel taoismo, nella filosofia greca (Platone), nei Vangeli e nel primo cristianesimo: la legge dell’amore. La grazia era rimasta viva nel cristianesimo dei Catari e nei valori della civiltà occitana, prima che la Croisade li distruggesse. La “pesantezza” è di Roma, dominatrice di popoli, e della Chiesa, che si è fatta meccanismo di dominio. Una forza negativa che tornerà nei regimi totalitari del XX secolo, in particolare nel nazismo. Torneremo su questa pensatrice. Voglio chiudere con un suo folgorante pensiero, quasi un monito: “Ogni civiltà, come ogni uomo, ha a sua disposizione la totalità delle nozioni morali, e sceglie”.

pubblicato il 5 novembre 2010

NON-VIOLENZA


“Scruto nei vostri occhi e vedo intense e profonde tracce di tormento, di sofferenza e di tristezza. Scruto nei
vostri occhi e non vi trovo luce, né gioia di vivere, ma una fitta oscurità e un’intima delusione che si oppongono alla vita”. Sono parole di Osho Rajneesh, mistico e maestro spirituale indiano. Maestro di realtà, fu definito. Il suo pensiero fa leva sulla liberazione dai dogmi, dalle credenze, dai legami ideologici, politici, sociali: libertà dai vincoli, libertà dalla paura, un percorso condotto attraverso un “passo armonioso” e una “messa a fuoco sul reale”. I vincoli a cui prima accennavamo producono violenza: le credenze, le appartenenze portano a conflitti, prima o poi, e occorre recuperare equilibrio ed ordine. Una dimensione che riporta l’individuo al centro della propria esistenza, da cui troppo spesso è sradicato, un viaggio che conduce all’amore. L’amore che è uno “stato del sé”, e che diviene “perfetto e puro” attraverso la non-violenza. La non-violenza è amore, la violenza, l’irreligiosità e l’ignoranza sono “negative allo stesso modo in cui è negativa l’oscurità”. Una declinazione della nonviolenza diversa da quella di Mohandas Karamchand Gandhi, per il quale “la non-violenza è la legge della nostra esistenza”, “non-violenza è amore infinito capace di assumere il dolore”, e l’unica forza accettabile è la forza morale. Gandhi immerge la sua visione della non-violenza nel mondo e nelle cose, e ne fa pratica da portare anche in campo politico e sociale. Di fronte alla violenza ed alla oppressione non si deve essere passivi: Gandhi propone una strategia che consiste nella resistenza passiva (la non reazione alle provocazioni dei violenti), e nella disobbedienza civile, vale a dire il rifiuto di sottoporsi a leggi ingiuste. “La mia non-cooperazione non nuoce a nessuno; è non-cooperazione con il male,… portato a sistema, non con chi fa il male”. A questa lezione si ispirò il filosofo italiano Aldo Capitini. Leggiamo dalle sue opere : “Tanto dilagheranno violenza e materialismo, che ne verrà stanchezza e disgusto; e dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione salirà l'ansia appassionata di sottrarre l'anima ad ogni collaborazione con quell'errore, e di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo (che è il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il mondo ci è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza un'apertura infinita dell’uno verso l'altro, senza una unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia”. Capitini parla di non-collaborazione: la lezione gandhiana è qui assunta come pratica personale e politica. Una grande filosofa francese, Simone Weil, scrisse: “Sforzarsi di sostituire sempre più nel mondo la non-violenza efficace alla violenza”. La non-violenza efficace per opporsi al dominio della forza: “La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell'uomo una cosa nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C'era qualcuno, e un attimo dopo non c'è nessuno […] Tanto spietatamente la forza stritola, tanto spietatamente essa inebria chiunque la possieda o creda di possederla. Nessuno la possiede veramente”. Parole che fanno molto riflettere.

pubblicato il 29 ottobre 2010

domenica 14 agosto 2011

Libertini e libertinismo


Da sempre, posso dire, pongo particolare attenzione agli usi linguistici ed alle frequenti torsioni semantiche che di tali usi sono conseguenza. Prendiamo, ad esempio, il termine “libertino”, che, nella vulgata linguistica, ha assunto una connotazione un po’ licenziosa e depravata. Anche un celebre quadro di William Hogarth, “La carriera del libertino: la taverna”, presenta una scena scomposta, dove dominano ubriachezza e prostituzione. In realtà, il libertinismo è una corrente culturale importantissima, che nasce nel Seicento ed ha, come caratteristica principale, la critica dell’ortodossia religiosa e del principio di autorità, in nome dell’autonomia della ragione. Il termine deriva dal latino “libertus”, lo schiavo liberato. Sta germinando il pensiero per cui il sonno della ragione genera mostri, ed il secolo dei Lumi è alle porte. La Chiesa cattolica, per contrastare l’evento epocale della Riforma protestante, ha creato, con la Controriforma, un quadro di rigida restaurazione dell’ortodossia, in campo religioso, morale, etico, artistico. Le radici del libertinismo affondano nell’umanesimo rinascimentale, con la rivendicazione della centralità dell’uomo e delle sue autonome capacità intellettuali e la costruzione di stili di pensiero che mettono in forte discussione una tradizione culturale connotata pesantemente dal filtro religioso. Si potrebbe dire che il libertino nasce dall’uomo di Leon Battista Alberti: un uomo che si pone al centro del suo mondo, e cerca di studiarlo, interpretarlo e comprenderlo attraverso la propria ragione. In questo senso, il libertinismo cerca riferimenti nella filosofia stoica – una morale razionalistica e non garantita da un’autorità superiore -, nel pensiero scettico e, finalmente, nell’epicureismo: corrente filosofica a forte segno materialistico e mondano. Come si vede, una tradizione culturale di tutto rispetto - in cui trova spazio sicuramente anche l’aspetto della valorizzazione dell’erotismo - che combatte il dogmatismo religioso e l’assolutismo politico (non a caso, due esponenti come Giulio Cesare Vanini e e Theophile de Viau, tra la fine del ’500 e gli inizi del ’600, sono l’uno giustiziato, l’altro incarcerato; il radicalismo politico, peraltro, è un aspetto che man mano viene a cadere). Pensiamo a Cyrano de Bergerac ed alla sua critica alle credenze religiose: “[…] Dio, del tutto immutabile, non potrebbe adirarsi con noi per non averlo conosciuto, poiché è Lui stesso ad averci rifiutato i mezzi per conoscerlo”. Ma la raffigurazione più completa del libertino è Don Giovanni: quello di Moliére (1665) e quello musicato in modo sublime da Mozart, su libretto di Lorenzo Da Ponte. Don Giovanni ha una lunga tradizione letteraria, che parte da Tirso de Molina, passa per Molière, arriva al libretto di Da Ponte, per giungere all’estetica del seduttore di Kierkegaard. Con Da Ponte e Mozart, siamo alla fine del ’700: continua l’interrogazione al libertinismo, per il suo aspetto ideologico, culturale, etico ed erotico, ed i forti rapporti con l’Illuminismo (e già nel precedente libretto mozartiano – Le nozze di Figaro - può riscontrarsi la propensione di Da Ponte verso una ribellione dagli accenti libertini). Il “farfallone amoroso” del “Figaro” si trasforma in un personaggio dalla forte caratterizzazione tragica, in un’opera che è un capolavoro assoluto e sublime di poesia, musica e pensiero. Kierkegaard utilizzerà il tema della seduzione sensuale, emblematizzata da Don Giovanni, nella sua riflessione sull’estetica, da sottrarre tanto alla determinazione del pensiero quanto alla giurisdizione dell'etica. Don Giovanni «non ha bisogno d'alcun preparativo, d'alcun progetto, d'alcun tempo […]» per sedurre, poiché agisce con l'immediatezza del proprio desiderare. La rappresentazione della forza di questa seduzione può avvenire solo attraverso la musica, che è il «medio dell'immediato», per cui “Don Giovanni non dev'essere visto, ma ascoltato!”. Come vedete, il libertinismo ci ha condotti fin qui.

pubblicato il 23 ottobre 2010

GIGANTI E DEI


Il gigantesco è meraviglioso e terrificante. Riveste una dimensione perturbante, in quanto fuori della misura umana. Nella “Teogonia” di Esiodo, “la stirpe dei Giganti” nasce da un cruento fatto di sangue: Urano “cosperso di stelle”, il cielo, e Gea, la terra, “sacra madre”, si uniscono e generano i Titani, che il padre costringe nelle viscere della terra, poiché li teme. Cronos, il Tempo, “fra tutti i figliuoli il più tremendo” (ed è notevole questa caratterizzazione del Tempo, terribile figlio degli inizi del mondo), che “d'ira terribile ardea contro il padre”, mutila con la sua falce il padre Urano. Dal sangue che sgorga dalla ferita nascono le Erinni “tremende”, e “gl'immani Giganti,/lucidi in armi, strette nel pugno le lunghe zagaglie”. Splendide leggende di un mondo primitivo, ctonio, cupo, in cui le forze della natura scatenate terrorizzavano gli esseri umani, inermi di fronte a loro. Pensiamo alle prime quattro “essenze”, come le chiama Esiodo, che nascono al sorgere dei tempi: “primissimo” è il Caos, poi Gea, la Terra, il buio Tartaro, luogo dei morti, e, finalmente, Amore (“ch'è fra tutti i Celesti il piú bello,/che dissipa ogni cura degli uomini tutti e dei Numi,doma ogni volontà nel seno, ogni accorto consiglio”). Leggende che mostrano simbolicamente le fasi della vita, il corso delle stagioni, i cicli della natura. Crono, il possente, l’astuto, a sua volta ha gran timore dei figli, e li inghiottisce, finché la sposa Rea non gli sottrae l’ultimo, Zeus, che sconfiggerà il padre, liberando fratelli e sorelle. Il Tempo divora i suoi figli, e solo la luce diZeus può sconfiggere e confinare il Tempo: Zeus lo sfolgorante, il numinoso, il lucente. La luce ha sconfitto l’oscurità, e si inaugura una nuova fase del mito, quella degli dei olimpici. Ma rimane il timore ancestrale verso la natura, le sue meraviglie e le sue deformità: rimangono le Erinni, le Moire, i Ciclopi, i Titani, i Giganti, che, per millenni, hanno stimolato l’immaginazione Scriveva il grande studioso di psicologia Carl Gustav Jung: “«Il principio dinamico della fantasia è il gioco, che è proprio anche del bambino e come tale sembra incompatibile con il principio del lavoro serio. Ma senza questo giocare con la fantasia non è mai nata opera d' arte. Il debito che abbiamo con il gioco dell' immaginazione è incalcolabile». L’iperbole, il fantastico, l’”horribile visu”, il gigantesco sono componenti importanti dell’immaginazione, dell’arte e quindi della vita. Dobbiamo farci i conti, se non altro per fronteggiarle e tenerle a bada. “Enorme è brutto”, scrive James Hillman in uno splendido saggio. Richiama le “devastanti enormità” che hanno contraddistinto il secolo scorso: dalla Grande depressione ai fenomeni totalitari, alle guerre mondiali, ai megatoni di energia per le esplorazioni spaziali, al “consumismo gargantuesco”. Un “gigantismo” diffuso, a volte incontrollato ed incontrollabile: poiché, “in assenza degli Dei, le cose si gonfiano fino a diventare enormità”. Prosegue Hillman: “Il primo grande compito degli Dei fu quello di sconfiggere i Titani e di cacciarli nel Tartaro, dove sarebbero stati tenuto lontani per sempre dalla terra dell’uomo”. Fu la volta di Metis, la saggezza, di Themis, la giustizia, delle Grazie e delle Muse. “Questi principi e queste forze archetipe vengono nel mondo soltanto quando c’è la sicurezza che il titanismo sia tenuto a bada. L’immaginazione civilizzata, l’immaginazione dell’ordine civico, ha inizio soltanto quando l’eccesso è circoscritto”. Quante cose ci insegna la mitologia. Quante cose emergono da un testo come la “Teogonia”. Sarà per questo che gli studi classici stanno per essere distrutti?

pubblicato il 16 ottobre 2010