venerdì 30 settembre 2011

Oligarchia, oligarchie

Il governo dei pochi si chiama oligarchia. L’etimologia della parola risale a due termini greci: significa “il governo di pochi”. Ne parlò Platone, con preoccupazione. La costituzione oligarchica stabilisce, imponendolo con la forza delle armi o dell'intimidazione, un criterio censitario per l'accesso alle cariche pubbliche e al governo della città. La città oligarchica sarà governata da una minoranza, più o meno numerosa a seconda della soglia di censo fissata come criterio per attribuire i diritti politici. Il suo errore fondamentale è dovuto proprio al suo caratteristico criterio censitario: se un criterio simile fosse adottato, dice Socrate, per la selezione dei piloti delle navi, un povero, anche competente, verrebbe escluso, a vantaggio di un ricco, anche incompetente. Il risultato sarebbe una cattiva navigazione. Inoltre, la città oligarchica è intimamente conflittuale, perché è quasi composta da due città, una di ricchi e una di poveri. In caso di guerra, i ricchi sono costretti a servirsi del popolo armato, e a temere più quello dei nemici, oppure a mettere in campo un esercito di pochi. Infine, l'andamento del mercato costringerà alcuni a vendere tutto quello che hanno ad altri. Si creerà, così, una minoranza di ricchi e una maggioranza di poverissimi. Ove il denaro è identico al potere fra coloro che si conserveranno o diventeranno ricchi ci saranno molti parassiti e molti malfattori, che sfruttano e taglieggiano gli altri. Con un salto di secoli, il teorico della politica Robert Michels, con la sua "legge ferrea dell'oligarchia", mette in evidenza come i partiti tendano a concentrare il potere in una cerchia ristretta di uomini, producendo un distacco sempre più ampio tra i dirigenti del partito e gli iscritti. Tale distanza tra classe dirigente e iscritti provoca, secondo Michels, un'organizzazione oligarchica del partito, in cui i dirigenti perseguano di fatto i propri interessi e solo formalmente gli interessi delle masse. Michels dimostra che l'organizzazione oligarchica dei partiti permette di concentrare il potere nelle mani di pochi dirigenti, oltre ad impedire che le candidature politiche vengano fatte dal basso. E, per dirla con Alessandro Manzoni, “Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l'individuo trovava il vantaggio d'impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti”. I più onesti, dice Manzoni, se ne servivano per difendersi; “gli astuti e di facinorosi” per portare a termine ribalderie, per le quali i loro poteri personali non sarebbero bastati, e per assicurarsene l’impunità. È il caso di sottolineare evidenti consonanze con il nostro presente?

sabato 24 settembre 2011

L'archivista

Spezzeremo una lancia, oggi, a favore di un mestiere e di una figura professionale snobbate, quando non neglette: parliamo dell’archivista, questo sconosciuto. Intanto, come figura protagonista di un bel romanzo, non molto noto, di Martha Cooley, dall’identico titolo. La storia si gioca sul rapporto stretto, intellettuale e metaforico, tra Matt, l’archivista, e l’immenso poeta Thomas Stearns Eliot, in cui si inserirà la relazione, reale, con Roberta, una giovane studiosa. “Nella realtà, sono l'archivista di una delle più prestigiose istituzioni americane per l'istruzione superiore, dove sovrintendo a una collezione di libri rari e manoscritti, i taccuini e le lettere di scrittori morti e altri personaggi illustri, e scatole di materiale eterogeneo donato da laureati eccentrici. Questo archivio, ospitato in un'ala tranquilla della biblioteca, è fra i più ricchi del mondo; e io sono il suo guardiano”. Forse la chiave del libro, e del mestiere, sta in questi versi di Eliot: “La memoria rigetta e dissecca / Un ammasso di cose distorte”. La cura della memoria e l’ansia quasi maniacale della conservazione: gli archivisti veri sono concreti e lunatici, materiali sognatori. Attenti al supporto – la carta, quando non la pergamena – , malvolentieri si piegano all’obbligo della selezione e dello scarto, pratiche ahimè necessarie per non riempire schedari, uffici, luoghi di lavoro. Pensate: tra cento anni, in un futuro che appena possiamo immaginare, ma certo non prefigurare, della quantità enorme delle scritture di questi anni rimarrà, in via permanente ed organizzata, quel che gli archivisti avranno selezionato. Su carta – supporto, tuttora, più certo e sicuro per la conservazione – e su file: l’ambiente digitale apre problemi enormi, di selezione, valorizzazione, conservazione. Miliardi di file nell’universo digitale: cosa resterà? Si parla, non a caso, di cloud computing, la nostra memoria conservata su una nuvola virtuale. Un elemento di materialità diverso. Una dimensione cui accostarsi mutando in profondità i nostri parametri mentali. Scriveva l’immenso Eliot: “La conoscenza impone una trama, e falsifica/Perché la trama ogni momento è nuova”.

sabato 17 settembre 2011

Bellezza aurea

Oro, incenso e mirra: sono i doni che i re Magi portano al bambin Gesù, appena nato a Betlemme. Per secoli ci si è interrogati sul valore alchemico e simbolico dei doni. Il primo è l’oro, il metallo nobile per eccellenza. Non si ossida, non si corrode, è incorruttibile. In questo contesto, può parlare dell’incorruttibilità del Cristo, il quale “è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato”. In questo caso, l’oro è legato ad un omaggio libero e colmo di fede, è un dono che esprime gioia nell’accettare un annuncio. L’oro è lucente, la luce gli appartiene, la incamera e la restituisce. Gli alchimisti medievali pensarono di ottenere ora dalla fusione dello zolfo con il mercurio. Ovviamente l’oro non venne creato, ma la manipolazione di sostanze portò a progressi sostanziali in ambito chimico e fisico: la scienza, ai suoi inizi, ebbe una connotazione segnata fortemente da naturalismo, alchimia e magia. La lucentezza spettacolare dell’oro lo ha reso, in tutte le culture, materia prima di ornamenti e talismani. Vengono scoperte le Americhe, e un fiume di oro si riversa in Europa (e anche nelle acque dell’Oceano, su galeoni affondati), provocando lusso sfrenato, finanziando le guerre imperiali, costituendo infine una vertiginosa influenza sulle economie (la Spagna ne andrà, paradossalmente, in profonda crisi). Pensiamo ad Albrecht Dürer, grandissimo pittore tedesco, che, nel 1520, rimane impressionato dai tesori aztechi nella residenza dei governatori spagnoli dei Paesi Bassi, a Bruxelles. Passano i secoli: in California, nel 1848, si trovano le prime pagliuzze d’oro. Poi, in Nevada, South Dakota eccetera. Si scatena la corsa all’oro: Eldorado sembra diventato realtà. Nel 1873 Heinrich Schliemann, a Troia, troverà l’incredibile “Tesoro di Priamo”, migliaia di gioielli d’oro. Simbolo di regalità, di purezza, di eternità; simbolo del sole che sfavilla, amato da mistici, filosofi, sapienti, regnanti, belle dame e avventurieri, l’oro, oggi, si trova forse un po’stretto nella definizione di “bene rifugio”.

Agopoli*

sabato 10 settembre 2011

Figure dell'ebraismo italiano

Si sta svolgendo, in molte città, la Settimana della Cultura Ebraica: una serie di iniziative, incontri, concerti, spettacoli teatrali, percorsi enogastronomici, mostre, in collegamento alla dodicesima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica. E’ appena il caso di ricordare l’importanza e l’influenza che la cultura ebraica ha avuto nel nostro Paese: una presenza ancora forte e vivace. Lo testimonia lo stesso tema della Giornata di quest’anno: Ebr@ismo 2.0: dal Talmud a Internet. Una sfida a costruire percorsi nella modernità, pur affondando azioni e riflessioni in radici millenarie e straordinariamente feconde. Per questo, vorremmo parlare di tre figure dell’ebraismo italiano, non molto conosciute ma di grande rilevanza: Elia Benamozegh, Graziadio Isaia Ascoli e Federigo Enriques. Un rabbino, filosofo e studioso della Kabbalah; un linguista e glottologo, e un grande matematico. Benamozegh era di origine marocchina: un’esperienza, la sua, collocata nel circuito mediterraneo formatosi tra Livorno (dove nacque nel 1823) e i Paesi dell’ebraismo sefardita. Si trovò a vivere nella stagione dell’Unità d’Italia: sarebbe troppo lungo approfondire il rapporto tra identità ebraica e questione nazionale, in tutta Europa. Diremo che Benamozegh, pensatore colto e geniale, si batte per un “ebraismo integrale”, capace di vivere nel proprio tempo, ma con un equilibrio etico di valori, in accordo con le esigenze dello Stato nazionale e liberale. Un ebraismo religioso e popolare, ispirato alla Torah, ai profeti e alla complessa tradizione che comprendeva il patrimonio mistico-speculativo della Qabbalah. Graziadio Isaia Ascoli, goriziano, fu professore di linguistica all'Accademia scientifico-letteraria di Milano e direttore dell'Archivio glottologico italiano fondato nel 1873. Ascoli orienta il proprio lavoro di docente a «preparare gli allievi all'insegnamento istorico del latino, del greco e dell'italiano». Fu nettamente avverso al fiorentinismo di Manzoni perché per Ascoli lingua è cultura, abitudine al rigore del ragionamento scientifico e la proposta di Manzoni, oltre a contenere il pericolo del formalismo, era stata ormai oltrepassata dal superamento che la lingua aveva fatto dei dialetti. La lingua doveva riflettere la cultura nazionale moderna a tutti i livelli escludendo la «tersità» del «popolanesimo» dell'«ajuola fiorentina». E, dopo il 1870, Ascoli affronta gli studi di dialettologia italiana per “l'esigenza di unire ancor più intimamente la disciplina da lui professata alla vita culturale della nazione, di creare una scuola, saldamente organizzata sul modello tedesco, la quale esplorasse in modo sistematico la varia e complessa fisionomia linguistico-etnografica dell'Italia e ne illustrasse la formazione storica” (Timpanaro). Federigo Enriques, nato anch’egli a Livorno nel 1871, fu studioso di geometria, di algebra e di storia della scienza. Docente universitario, fu direttore della Sezione Matematica dell'Enciclopedia Italiana, in collaborazione con Gentile. Convinto assertore della genesi psicologica delle teorie scientifiche, in opposizione alle interpretazioni convenzionalistiche e formalistiche della matematica, Enriques, contrario alla dialettica hegeliana, si trovò stretto tra lo storicismo di Benedetto Croce, l'attualismo di Giovanni Gentile e la crisi del positivismo italiano. “L'organamento attuale della produzione scientifica trae la propria fisionomia dal fatto che i rapporti reali vengono circoscritti entro discipline diverse, le quali ognora più si disgiungono secondo gli oggetti a secondo i metodi di ricerca”: per Enriques, lo spazio ed il ruolo della filosofia sono delineati come sintesi delle conoscenze scientifiche e non come autonoma speculazione, indipendente da ogni acquisizione scientifica. Sono poche note, giusto per tentare di dare conto della grandezza di questi personaggi. Le ignobili leggi razziali fasciste del 1938 e la successiva complicità con la Shoah colpirono tante persone innocenti, ma anche, e in profondità, la nostra cultura nazionale.

sabato 3 settembre 2011

Oceano mare

“E misi me/per l’alto mare aperto”. È l’Ulisse di Dante. Narra una leggenda che Ulisse, tornato a casa ad Itaca, non pago del porto sicuro e della felicità domestica con Penelope e Telemaco, chiedesse al dio suo nemico, ma nume tutelare di quell’elemento che lo aveva stregato, già, proprio il mare, il dio Poseidone, che cosa dovesse fare per avere pace dell’anima. Il dio, attraverso un oracolo, gli rispose che avrebbe dovuto camminare a lungo, a lungo, con un remo sulla spalla, fino a giungere in un luogo in cui il remo – il mare – non fosse conosciuto. Allora immaginiamo Ulisse, Odisseo, che se ne va per contrade sempre più lontane, e tutti gli chiedono “perché porti un remo in spalla?”, e lui prosegue, tacendo, contrito ma deciso. Finché giunge in una terra lontana, in cui gli chiedono: perché porti in spalla una pala per battere il grano? E lui capisce che è arrivato al termine del suo peregrinare. Era così incredibile, per i greci, che qualcuno potesse ignorare l’esistenza del mare. Ci voleva Ulisse, Odisseo, per assumersi questa sfida. “Navigare necesse est, vivere non est necesse ("Imbarcarsi è indispensabile, vivere no"), è l'incitazione che, secondo Plutarco nella Vita di Pompeo, lo stesso Pompeo diede ai suoi marinai, i quali opponevano resistenza ad imbarcarsi alla volta di Roma a causa del cattivo tempo. Ma dalla tolda non si ha mai, mai, la stessa percezione dei flutti che si ha stando in acqua, per diletto – avviluppati dall’acqua che ti avvolge, ti accarezza, ti blandisce, elemento primordiale – o per fato – naufraghi. Di naufraghi, oggi, è pieno il nostro mare. Anime dei naufraghi, partiti dalle coste dell’Africa – proprio come fece Odisseo, lì giunto dopo l’assedio di Troia). Noi ci immergiamo nelle acque del mare nostrum e non siamo consapevoli che è mare sepolcreto di migliaia di corpi e di anime. Un tempio. Dovremmo immergerci con animo colmo di consapevolezza e voci salmodianti la speranza, l’agonia, la morte. Il distacco. Può aiutarci a conoscere noi stessi, gnoti sauton. Per conoscersi, occorre immergersi. Sentire il mare dentro. Nuotare, infrangere lo specchio narcisista e consolatorio della superficie. Immergersi e farsi corpo con l’acqua. A occhi aperti.

pubblicato il 2 settembre 2011

Sì, viaggiare

“La vita è un libro. Chi non viaggia ne legge una sola pagina”. Lo scrive sant'Agostino, che di viaggi se ne intendeva: visse tra il Nordafrica e l’Italia, Ippona, Cartagine, Roma, Milano. Siamo in estate, tempo di viaggi, complici le ferie ed il bisogno di cambiare aria, orizzonti, contesti. Quando non si tratti di un puro atto esibizionistico (quanto sono tristi coloro che dicono: “ho fatto” la Grecia, la Spagna, Cuba o la Namibia che siano …), viaggiare è naturale, consustanziale all’essere umano. Val la pena ricordare il carattere nomade di tante popolazioni primitive, una tenda per casa e la volta celeste sul capo; o il prototipo del viaggiatore affamato di conoscenza, Odisseo, tentato dal desiderio di gettar l’ancora in un porto sicuro, ma affascinato da tutto quanto non conosce e non sa, che siano i Lotofagi o la malia di una maga affascinante. L’Ulisse dantesco, dall’Inferno, racconta: “e misi me per l’alto mare aperto”. Primo Levi, dopo un viaggio terribile, un viaggio all’inferno di Auschwitz, si sforza di recitare a memoria al suo amico Pikolo i versi del XVI canto e si ingegna a spiegare la potenza espressiva di quel “misi me”, la scelta finale, l’uomo che va incontro alla propria sorte, che non si accontenta di piccoli orizzonti ma vuole andare “più in là”. Epitome del prometeismo occidentale, grande narrazione, immensa. Sarà così per Cristoforo Colombo, che intendeva “buscar el levante por el poniente”, e trovò il Nuovo Mondo. E Neil Armstrong, primo uomo a sbarcare sulla Luna, disse che era un piccolo passo per l’uomo, ma un salto gigantesco per l’umanità. Sarà che, come sostiene un grande analista americano contemporaneo, Daniel Stern, noi esseri umani riceviamo impressioni di vitalità così come respiriamo l’aria, e centrale, nella vitalità, è il movimento, che diventa una sorta di fenomenologia dell’essere: un profilo temporale che si caratterizza per un inizio del movimento, un suo fluire ed una sua fine. Diventa centrale, in Stern, il corpo, oltre alla parola e alla narrazione: la cognizione è incarnata, la mente è radicata all’interno del corpo, “embodied”. Col corpo capisco, è il titolo di un libro di David Grossman; “per il solo fatto che abbiamo un corpo, il mondo è ordinato per questo corpo; esso è disposto in rapporto alla reazione del corpo”, scrisse la filosofa Simone Weil: noi siamo ontologicamente determinati da un corpo e da una mente razionale. Conviene allora leggere e meditare queste parole di Marc Augé: “[…] noi non siamo altro che il nostro corpo […] accettiamo il nostro corpo così com’è, accettiamo il passare del tempo. E non dimentichiamo il detto scientifico che riecheggia l’intuizione pagana: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

pubblicato il 26 agosto

Animali razionali?

Ci diciamo animali razionali. Lo diciamo in contrapposizione alla ferinità del mondo animale non umano, che sarebbe preda di passioni selvagge ed incontrollabili. Ma è così vero? Sappiamo che dovremmo seguire stili di vita sani e genuini, per godere di buona salute, ma siamo pigri, mangiamo di tutto e, magari, fumiamo. In tempi di crisi e di recessione, dovremmo prestare molta attenzione ai consumi: eppure, quell’auto è troppo bella e, anche se non ce la potremmo permettere, con le rate ce la facciamo. Qualcuno parla di “capitalismo tossico”: è quel modello per cui la finanza ed il credito al consumo (la cosiddetta “crescita a debito”) hanno prodotto una situazione in cui il meccanismo dell’accumulazione reale è conflagrato. Sappiamo che un lavoro in rete ed in collaborazione produce senz’altro risultati migliori e più soddisfacenti anche per il singolo, che aggregazione, cooperazione, ricerche di piattaforma sono concetti chiave, ma troppo spesso predominano egotismo e protagonismo. Sarà perché, come diceva il grande teologo e filosofo Ernst Bloch, la corrente fredda della ragione può farsi strada solo se accompagnata dal soddisfacimento dei desideri emozionali semplici? Oppure, ci sono altre spiegazioni? Il premio Nobel per l’economia Herbert Simon utilizza il concetto di “razionalità limitata”. Si tratta di una teoria per cui la decisione è l’oggetto fondamentale della conoscenza organizzativa, ma, per capire il modo in cui si decide, occorre assumere come unità di analisi le premesse delle decisioni umane, posto che “ogni decisione dipende da molte premesse che sono numerose nella definizione di un solo ruolo” e che l’essere umano dispone di una razionalità limitata. Simon segnala i limiti oggettivi della conoscenza, l’impossibilità di considerare contemporaneamente troppe variabili, l’incertezza interna a ogni gerarchia delle preferenze, la disposizione mentale, le convinzioni dovute alla formazione culturale e i vari condizionamenti sociali: tutti elementi che fanno sì che, nella maggior parte dei casi, le decisioni vengano prese secondo un criterio di sufficienza e di soddisfazione minimale. Simon si avvale di una metafora: le forbici, di cui una lama è la natura del nostro modo di ragionare e prendere decisioni con tutti i limiti di tempo e dati disponibili, l' altra lama è la natura dell' ambiente in cui prendiamo le decisioni. A volte la prima lama si combina bene con la seconda e le forbici della razionalità funzionano, altre volte non succede: dipende dalla nostra capacità di adattarci all' ambiente. Per fortuna, diciamo noi: dalla nostra razionalità limitata sono infatti scaturiti grandi danni, ma anche grandi scoperte, appassionate generosità, doni di amore, poesia e perdono, che altrimenti non avrebbero visto la luce.

pubblicato il 5 agosto 2011

I buoni pateno, i tristi reggono

“Essi confessano che nel mondo ci sia gran corruttela, e che gli uomini si reggono follemente e non con ragione; e che i buoni pateno e i tristi reggono”. Così Tommaso Campanella, ne “La città del Sole” (1602), critica i falsi valori della società del suo tempo in cui si pensa che gli ignoranti, solo perché “son nati signori o eletti da fazione potente”, siano in grado di governare più dei sapenti. Campanella auspica la ricostruzione del rapporto tra natura e ragione, tra religione e politica, tra conoscenza e vita civile. In una realtà storica in cui domina la pratica del “mostrarsi quel che non sei, cioè d’essere re, d’essere buono, di essere savio e non esser in verità”, il saggio soffre, quando non venga perseguitato. Il filosofo auspica un modello in cui la sovranità non si fonda sui privilegi ereditari o sulle ricchezze, ma sulla virtù del sapere. La città del sole rappresenta dunque la proiezione di un modello di società pacifica e giusta in un luogo immaginario, in un’utopia (ou topos, non luogo) in cui si manifesta il desiderio di un totale rinnovamento civile e spirituale: la politica fondata sulla moralità. Sono evidenti gli influssi di Platone (la “Repubblica”, con il modello comunitario di donne e beni e con la frugalità e la temperanza dei “reggitori”), del profetismo millenaristico cristiano di Gioacchino da Fiore, e soprattutto da “De optimo rei publicae statu deque insula Utopia” o più semplicemente “Utopia”, la grande opera di Thomas More (1516 circa), epitome dell’umanesimo critico di origine erasmiana. Non a caso, Erasmo da Rotterdam e Tommaso furono legati da profonda amicizia. Un'opera, “Utopia”, in cui Moro si riconosce – ancora - debitore a Platone e alla sua “Repubblica”: "Ora io sono come la città di Platone, la cui fama vola attraverso il mondo". Tornando a Campanella, notevole è l’insistenza sul valore della conoscenza e la lotta all’ignoranza, come è ben sintetizzato in questi suoi versi: “ Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia […] Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno, ingiustizia, lussuria, accidia, segno, tutti a que' tre gran mali sottostanno che nel cieco amor proprio, figlio degno d'ignoranza, radice e fomento hanno ». Chi avesse oggi buone orecchie, trarrebbe gran giovamento da questa lettura.

pubblicato il 29 luglio 2011

Immagini in movimento

Ha scritto il filosofo Henri Bergson che il meccanismo della nostra conoscenza abituale è [ormai] di natura cinematografica. Il senso di questa frase è che, a partire dal Novecento, l’immagine in movimento caratterizza la cultura, l’espressione artistica, e persino il nostro mondo di rapportarci alla realtà. Il medium è il messaggio, diceva Marshall McLuhan: la particolare struttura comunicativa di ogni mezzo non solo lo caratterizza, ma suscita negli spettatori determinati comportamenti e modi di pensare. L’epoca della preponderanza delle immagini in movimento porterà ad una struttura cognitiva e mentale modificata in profondità. Gilles Deleuze, rifacendosi proprio a Bergson, scriveva già negli anni Ottanta del Novecento che i grandi autori del cinema possono essere paragonati non soltanto ad altri artisti, ma anche a dei pensatori, che pensano attraverso delle "immagini-movimento" e delle "immagini-tempo" al posto dei concetti. Pensiamo alla particolare torsione del tempo (e dello spazio) che può produrre la narrazione cinematografica: pensiamo ai fuori-campo, ai flash-back, al “ritorno al futuro”. Si dirà che anche la letteratura di avanguardia, lo stream of consciousness riusciva a rappresentare, per esempio, il flusso disordinato e magmatico, madotato di una propria logica, del pensiero nel suo farsi e della memoria nel suo dipanarsi: ma è innegabile che la rappresentazione per immagini possieda una immediatezza ed una potenza tutte particolari. Abbiamo letto nei giorni scorsi che, da quest’anno, sono le immagini in movimento il contenuto più richiesto in rete: si prevede che tra tre anni il video rappresenterà il 90% del traffico Ip. Con questo si intende il volume di telegiornali, filmati amatoriali, serie Tv, cinema, documentari a cui abbiamo accesso e che possiamo produrre. Gli strumenti? Le telecamere digitali, l’inserimento su Youtube, lo streaming video. Il processo porterà a conseguenze per adesso davvero incalcolabili e imprevedibili: ma il futuro è questo. Ne siamo consci. Sembrano davvero lontani i tempi della lanterna magica dei fratelli Lumière: ma la magia, quella è ancora presente.

pubblicato il 22 luglio 2011

Progressiva e direzionale

Il pensiero socialista si basa sulla critica al modello capitalistico: in alternativa, c’è l’accettazione delle idee dell’avversario. In una opera teatrale, “Venezia salva”, la grande filosofa Simone Weil (nella foto) scrisse: “Il vincitore vive il proprio sogno, il vinto vive il sogno altrui”. Cosa contraddistingue, allora, una politica di sinistra? Il tentativo di spezzare il sogno del vinto, i vincoli che serrano il suo spirito, oltre che il suo corpo. Capitalismo rimanda a lavoro: grande tema, appassionante. Il lavoro come fonte di libertà e di illibertà, palestra di azione politica e teatro di oppressione. Il lavoro come fonte di grande riflessione sulla vicenda umana e come vincolo necessario alla materialità della sua esistenza. Il lavoro come metafora, non esaustiva, certo, della condizione umana, della possibile libertà e illibertà umana. Il lavoro che spesso si fa modello di dominio, sociale prima che fabbrica: con l'utilizzo selvaggio della globalizzazione, il gioco al ribasso della libertà, dell'autonomia, dei diritti (termini che non sono sinonimi, ma che significano una dimensione ben precisa). Si può leggere, dicono alcune filosofe, come un colpo di coda, l'ennesimo, del tentativo di reagire alla crisi del patriarcato, poiché è palese quanto il modello di dominio capitalistico sia debitore al modello patriarcale. Pare che oggi si manifesti nuovamente, dopo “la fine della storia” profetizzata, forse in modo improvvido, da Fukuyama, il manifestarsi del conflitto di classe. D’altronde, la realtà può inabissarsi, come un fiume carsico, ma poi esce di nuovo alla luce. Fukuyama parlava del progresso scientifico tecnologico come indice di una storia progressiva e direzionale: ha poi dovuto ricredersi. La storia procede per arrivi e partenze, il suo segno è la contraddizione, in quanto è fatta da uomini e donne, la cui storia – raramente – è “progressiva e direzionale”.


pubblicato il 15 luglio 2011

L'entusiasmo


Mi capita spesso, come sanno
i miei quattro lettori, di riflettere
sull’origine delle parole. Per
esempio, tempo fa ascoltavo
il commento di un cronista su
una partita di calcio, e notai
quante volte egli usasse il termine
“entusiasmo”. Ho pensato
a Nietzsche, al suo ultimo
uomo, espressione del nichilismo
contraddistinto dalla passività
di chi è adagiato nell’abitudine,
nell’uso consuetudinario.
“Viene il tempo in cui l'uomo non
avrà più stelle da generare”: un
individuo alienato della società
di massa, nella cui anima non
arde più il fuoco dell’entusiasmo.
Nietzsche aveva parlato di
entusiasmo riguardo allo spirito
dionisiaco: l’ebbrezza orgiastica,
l’accettazione totale della vita. In
tempi più recenti, l’entusiasmo
è stato accostato al fanatismo.
Ma in Platone, per esempio l’entusiasmo
era la voce divina che
spirava nel poeta: “Quando recito
qualcosa che muove a compassione,
gli occhi mi si riempiono
di lacrime; e quando recito
qualcosa di pauroso e terribile,
i capelli mi si rizzano sul capo
dallo spavento e il cuore mi sussulta!
», afferma Ione nel dialogo
omonimo. L’entusiasmo come
divina follia del poeta: ritroviamo
il concetto nel “Fedro” platonico:
“colui che giunge alle porte
della poesia senza la mania
delle Muse, pensando che potrà
essere valido poeta in conseguenza
dell’arte, rimane incompleto,
e la poesia di chi rimane
in senno viene oscurata da quella
di coloro che sono posseduti
da mania”. L’entusiasmo, la divina
mania. Ancora Nietzsche,
nell’“Aurora”: “Se nonostante
quell’oppressione spaventosa
dell’«eticità del costume», sotto
la qual vissero le comunità umane
molti secoli prima della nostra
èra e ancora in essa in tutto
e per tutto fino ai nostri giorni
(noi stessi abitiamo nel piccolo
mondo dell’eccezione e per
così dire nella zona cattiva); se,
dico, nonostante tutto questo,
irruppero sempre, ancora una
volta, pensieri, valutazioni, istinti
nuovi ed irregolari, ciò avvenne
con un accompagnamento
che mette i brividi: quasi ovunque
è la follia che
ha aperto la strada a
nuovo pensiero, che
ha infranto il potere
di una venerabile
consuetudine e di
una superstizione”.
Anche Leopardi si
pronuncerà a favore
di questa “follia”:
“Io non veggo come
si possa essere originale
attingendo,
e come un largo studio d’ogni
gusto e d’ogni letteratura, abbia
a menarne ad una originalità
trascendente […] Scintilla celeste,
e impulso soprumano vuolsi
a fare un sommo
poeta, non studio di
autori, e disaminamento
di gusti stranieri”.
È la “divina
scintilla”, è l’entusiasmo,
è la voce poetica
che sale, inarginabile.
Vedete voi
dove siamo arrivati
… partendo da una
partita di calcio.

pubblicato l'8 luglio 2011

Elementare, Watson


“Elementare, Watson!”. Tutti
sanno che, a parlare, è Sherlock
Holmes. Più interessante è capire
come si sia sviluppata la scienza
investigativa: una branca del sapere
che vede la compresenza di svariate
discipline, da quelle oggi più
contestabili, come la fisionomica ed
il costituzionalismo, alla psicologia,
alla criminologia, alla psichiatria.
Oggi si parla di “criminal profilino”:
attività che tende a tracciare un
profilo psicologico-psichiatrico del
possibile reo, certamente mediante
l’analisi delle prove oggettive, ma,
soprattutto, la costruzione di un
adeguato profilo psicologico. Non
sembri eccessivo accostare a questo
metodo le idee di
Karl Raimund Popper (Vienna,
1902 - Londra, 1994, grande filosofo
novecentesco. Secondo Popper,
infatti, è del tutto illusorio sperare
di costruire una logica di tipo
induttivo che possa garantirci che
"una generalizzazione inferita da
asserzioni vere, per quanto ripetute
spesso, sia vera".
Quindi, la scienza non può partire
dai fatti per costruire le sue teorie
ma, al contrario, deve inventare
le teorie con l'immaginazione e poi
controllarle mediante i fatti. Popper
affronta il problema kantiano dei
limiti della conoscenza scientifica:
occorre trovare un criterio che
possa distinguere tra asserti che
appartengono alla scienza empirica
e asserti che si possono descrivere
come "metafisici".
Ci aiuta, in questo, l‘idea di
"significato" o di "senso". Come lo
si utilizza? Adottando, come criterio
di demarcazione, il criterio di falsificabilità,
secondo cui le asserzioni,
o i sistemi di asserzioni, trasmettono
informazioni intorno al mondo
empirico solo se sono capaci
di collidere con l'esperienza, o,
più precisamente, solo se possono
essere controllati sistematicamente,
cioè a dire se possono essere
sottoposti a controlli che potrebbero
mettere capo alla loro confutazione.
Leggiamo questo brano
di Popper, tratto da “Conoscenza
oggettiva”: “L'epistemologia classica,
che prende le nostre percezioni
sensoriali come "date", come o
"dati" da cui debbano venir costruite
le nostre teorie attraverso un
qualche processo di induzione, può
venir descritta come pre-darwiniana.
Essa non riesce a tener conto
della circostanza che i presunti
fatti sono in realtà reazioni di adattamento,
e perciò interpretazioni
che incorporano teorie e pregiudizi
e che, al pari delle teorie, sono
carichi di aspettazioni congetturali;
non riesce a tener conto del fatto
che non ci può essere nessuna
percezione pura, nessun dato
puro; esattamente come non ci
può essere nessun linguaggio che
sia un linguaggio osservazionale,
dal momento che tutti i linguaggi
sono impregnati di teorie e miti”.
Torniamo alla scienza investigativa:
la fisionomica fu un classico linguaggio
osservazionale impregnato
di mito. Cesare Lombroso sostenne
che alcuni individui, famiglie, gruppi
sociali mostravano segni indicanti
anormalità di natura e degenerazione
biologica atavica, ereditate per
epilessia, sifilide alcolismo ed altro.
Queste anormalità erano la causa di
predisposizioni ed abitudini al crimine
e a comportamenti immorali.
Caratteristiche derivanti da miseria,
condizioni igieniche pessime, ignoranza
viste non come ingiustizie
sociali gravissime, ma come predestinazione
a delinquere. Il povero
non può che delinquere: un “mito”,
un pregiudizio devastante.

pubblicato il 1° luglio 2011

Il giudizio


Il giudizio è eccelsa facoltà
dell’essere umano. Secondo
Kant (nella foto), è il principio
che consente di ricomporre le
due sfere della ragion pura, che
indaga i concetti della natura
della filosofia teoretica (i quali
consentono di conoscere il
mondo dei fenomeni, quindi un
mondo dominato dal determinismo
fisico e meccanico) e della
ragion pratica, che è il concetto
della libertà dell'uomo razionale,
la sfera delle attività umane
liberamente scelte. Il giudizio,
allora, consente di poter pensare
la natura in modo che le sue
leggi si accordino con la libertà
dell’uomo. Leggi
e libertà: in questo
intervallo, si
situa il principio
del giudizio. Il
termine greco per
giudicare era “krinein”,
per cui il
giudizio è “krisis”,
da cui il nostro
termine “crisi”,
momento di svolta,
di mutamento, di frattura.
Il giudizio è crisi. Paride consegnò
la mela d’oro, riservata
alla dea più bella,
ad Afrodite, e
questo “giudizio”
provocherà l’odio
implacabile di
Atena e di Hera,
le dee scartate,
verso quella città
di Ilio, o Troia,
di cui Paride
sarà riconosciuto
principe, e che
determinerà la sua distruzione.
Ma già Ecuba, la madre, aveva
sognato di partorire un fiaccola
di fuoco distruttore. Ancora un
segno di crisi. Su un altro piano,
Gesù, nel Vangelo di Luca,
dice: “Non giudicate e non sarete
giudicati”. Queste parole, nel
Vangelo di Matteo, sono seguite
da un’altra frase: “Perché osservi
la pagliuzza nell'occhio del
tuo fratello, mentre non ti accorgi
della trave che hai nel tuo
occhio?”. San Giacomo spiega
con una domanda il motivo perché
non dobbiamo giudicare.
Dice: “Chi sei tu che ti fai giudice
del tuo prossimo?”. Il giudizio,
qui, appare misura inadatta
all’umano, perlomeno sul
piano morale: cosa ne sappiamo
di cosa avvenga, o sia avvenuto,
nel cuore del prossimo,
per poter giudicare? Prerogativa
divina: l’immagine di Cristo giudicante
si staglia nell’affresco
michelangiolesco della Cappella
Sistina. Sul piano della finitezza
umana, la democrazia, se ci
pensiamo, non è che la condizione
politica per cui non esiste una
autorità assoluta, legiferante e
giudicante, ma un gioco di contrappesi
di poteri, nella convinzione
che ciascuno può sostenere
i suoi valori, le sue opinioni,
la sua fede, ma non può imporle
agli altri con la violenza o con
la propaganda. Resta da capire,
allora, quale potere garantisca il
giudizio delle agenzie di rating,
che così importanza riveste nelle
nostre economie. Nessuno le
ha elette, nessuno le ha investite
di autorità in un libero gioco
delle parti. E allora? Eppure, per
gli Stati in crisi, queste agenzie
sono novelli Minosse.

pubblicato il 24 giugno 2011

Chicago Boys versus Keynes


Fu un fulmine a ciel sereno. O quasi.
Settembre 2008, esplode la crisi, le
banche vacillano, il governo USA decide
di salvare la Lehman immettendo
liquidità per centinaia di miliardi di dollari.
Pare la fine dei cosiddetti Chicago
Boys, gli economisti liberisti allievi di
Milton Friedman e di George Stigler.
La Scuola di Chicago, a partire dai
tardi anni Quaranta, sostiene la supremazia
del libero mercato e il rifiuto di
qualsiasi intervento della mano pubblica
dell’economia, in contrasto con la
teoria dell’economista John Maynard
Keynes. L’approccio di Friedman ha
ispirato, negli anni, diversi governi, da
quello di Margaret Thatcher, in Gran
Bretagna, a quello del dittatore cileno
Augusto Pinochet, passado per gli Usa,
Paese in cui, negli anni Ottanta, il presidente
Ronald Reagan, repubblicano,
tagliò tasse e welfare, e successivamente
il democratico Bill Clinton abolì il
Glass-Steagall Act, una legge bancaria
del 1933 istituita per contenere la speculazione,
aprendo la strada alla deregulation
degli anni successivi. C’è da
dire che i “veri” Chicago Boys erano gli
studenti cileni che dagli anni Cinquanta
del secolo scorso in poi hanno studiato
economia all’Università di Chicago
nell’ambito del Progetto Cile, un programma
del Dipartimento di stato USA
formulato per influenzare le politiche
economiche del Paese sudamericano.
Il loro momento di gloria si ebbe
dopo il golpe di Pinochet, del 1973.
L’inflazione si era innalzata moltissimo,
e le teorie di Friedman furono utilizzate
in modo pervasivo: aziende statali
privatizzate, budget statale tagliato,
tariffe sulle importazioni tolte di mezzo,
con l’obiettivo di incrementare l’export
e abolire l’artificiale controllo dei
prezzi. Il risultato fu: inflazione frenata
e crescita sostenuta, a prezzo, però,
di un forte disagio sociale e dell’impoverimento
delle classi popolari, oltre
che, dopo qualche anno, ad una forte
ripresa della disoccupazione e al calo
sostanziale del Pil. Certo, l’impalcatura
neoliberista consente al Cile di resistere
meglio, rispetto ad altri Paesi della
zona, all’avanzata della globalizzazione.
Ma in che cosa consiste la dottrina
liberista? Sostanzialmente, nell’idea
che i mercati siano in grado di autoregolamentarsi
completamente. È questa
l’illusione che si sgonfia con la crisi del
2008: la deregolamentazione rampante
del settore finanziario porta la crack.
Torna alla ribalta l’economia materiale,
e la materialità del lavoro. Oggi, anche
gli economisti liberisti recano maggiore
attenzione alla forza-lavoro, all’elemento
umano, caso mai da riqualificare,
con programmi di training efficaci.
Certo, ci sono ancora “talebani” come
il professor Becker, che sostiene che
“riqualificare i lavoratori è un’utopia. È
già difficile insegnare qualcosa ad un
ventenne, figuriamoci a un cinquantenne”.
Ma si afferma sempre di più l’idea
che occorra un investimento significativo
dello Stato in istruzione, anche permanente,
e ricerca.

pubblicato il 17 giugno 2011

Antigone


La legge è uguale per tutti. Ma non
è detto che la legge sia sempre giusta:
infatti, alla legge ci si può ribellare, postone
i fondamenti di eguaglianza ed universalità,
rispetto ad una comunità umana.
Figura della ribellione ad una legge che
ritiene iniqua è Antigone. Protagonista
di una splendida tragedia di Sofocle, il
personaggio mitico di Antigone, figlia di
Edipo e di Giocasta, sorella di Polinice,
ucciso dall’altro fratello Eteocle, decide
di violare la decisione assunta dal re
di Tebe Creonte di lasciare insepolta la
salma del fratello. Creonte aveva proibito
i riti funebri per Polinice, in quanto
questi, scacciato in esilio, si era alleato
con gli Argivi per portare guerra a Tebe,
facendosi traditore e nemico della patria.
Ma Antigone rivendica un diritto ed un
dovere che è al di là della legge umana:
ci sono principi etici e morali a cui non
si può non rispondere. In questo senso,
è figura non della separazione fra diritto
e morale e fra pubblico e privato. Dice
infatti a Creonte: “Ma per me non fu Zeus
a proclamare quell'editto, né la Giustizia
che dimora tra gli dèi. [...] Io seguo le leggi
sacre e incrollabili degli dèi, leggi non
scritte, di quelle io un giorno dovrò subire
il giudizio. [...] E non credevo che i tuoi
bandi fossero così potenti da sovrastare
e sovvertire le leggi morali degli dèi!».
Il tema è quello del rapporto tra legge
formale - la legge scritta - e giustizia. Il
dovere che Antigone avverte come proprio
si scontra con il dovere codificato
dalla legge; il conflitto tra la legge scritta
e la legge della coscienza, attraverso
la storia della civiltà umana lo si ritrova
nelle molte forme che ha assunto l'opposizione
tra diritto naturale e diritto positivo.
Il diritto positivo è il risultato, codificato
in legge, della volontà legislativa
umana. Il diritto naturale è un diritto non
scritto, che si ritiene però sia scritto nella
coscienza degli uomini. Tutta la storia
del pensiero occidentale è segnata dal
tentativo di trovare dei punti di equilibrio
fra la necessità della legge positiva
da una parte e la possibilità che qualcuno
si possa ribellare alla legge positiva
in nome di una legge più alta, che può
essere la legge di natura, o la legge di
Dio. Antigone è stata oggetto di riflessione
di Hegel: “lei, singola, compie un
gesto che sottrae il suo essere alla naturalità,
per portarlo nella consapevolezza
al di sopra dell’interesse contingente della
legge del sangue. Il suo gesto le viene
dettato da un insegnamento interiorizzato
come un gesto etico rituale ( sacro in
quanto attiene alle forze potenti e sconosciute
della morte): il dovere di seppellire
i morti come imponeva la legge “divina”
panellenica una delle leggi più antiche
che le comunità si siano date. Sottrarre il
defunto alle forze della natura e permettergli
di entrare nell’Ade, con il rito della
sepoltura” (G. Dapporto). Luce Irigaray
ha riletto Antigone, facendone una figura
dell'esclusione femminile dal linguaggio e
dalla polis e del ritrovamento della genealogia
materna. Antigone non smette di
interrogarci: oggi che “rughe profonde
che solcano il volto del Leviatano, la sua
crisi di legalità, legittimità e consenso, la
sua incapacità di garantire il funzionamento
dei cardini basilari del contratto
sociale moderno” (I.Dominijanni).

pubblicato il 10 giugno 2011

Un atteggiamento mobile e vivo


Secondo Baruch Spinoza, grande filosofo
vissuto nel 17° secolo, ispirare passioni
tristi è necessario all'esercizio del potere: e
anzi, il despota è colui che ha bisogno della
"tristezza" dei suoi sudditi. Ora, la nostra
epoca è descritta da più parti come l'epoca
delle passioni tristi. Affezioni, sentimenti,
modalità dell’essere e dello stare nel mondo,
che, sempre nei termini spinoziani, corrispondono
a una diminuita capacità di agire,
all'impotenza singolare e collettiva, alla
disunione e alla disarticolazione delle soggettività,
corpi e menti. Quindi, non tanto
la tristezza che genera pianto o sofferenza,
quanto quella che deriva dall'impotenza
e dalla disgregazione: la tristezza prodotta
dalla delusione e dalla perdita di fiducia.
Osservando la nostra società, è facile
incontrare passioni tristi, sentimenti di resa
o una frammentazione tale dei progetti e
delle identità da indebolire la forza di immaginare
un agire collettivo. Eppure è proprio
nelle esperienze che si muovono lungo le
linee di fuga dello scoraggiamento che troviamo
forme di esodi possibili dalle passioni
tristi: esperienze politiche, artistiche e
di pensiero non rinunciatarie. Ciò significa
che la metafora è efficace per significare la
nostra condizione, ma non deve essere una
narrazione totalizzante. In un libro uscito da
noi nel 2004, “L'epoca delle passioni tristi”,
due psicoanalisti francesi, M. Benasayag
e G. Schmit, raccontano cosa avviene in
una società in crisi, parlando soprattutto
dei giovani, che vivono senza futuro e subiscono
la sconfitta della civiltà occidentale,
basata in passato troppo spesso su una
“promessa” di “onnipotenza” della scienza.
Il senso di una "precarietà perenne", la realtà
di “una vita in stato di emergenza” continua.
Eppure, dicono gli studiosi, si deve
tentare di interrompere il circolo vizioso
perverso. Come? “Solo un mondo di desiderio,
di pensiero e di creazione è in grado
di sviluppare dei ‘legami’ e di comporre la
vita in modo da produrre qualcosa di diverso
dal disastro”. In una società che predica
il trionfo e provoca paura e incertezza,
occorre, al contrario, costruire un futuro
sulla fragilità, sui legami, sulla dipendenza
intesa come interdipendenza. “Gli adulti
temono davvero l'avvenire e quindi cercano
di formare i loro figli in modo che siano
ben ‘armati’ nei suoi confronti”. I giovani “si
costruiscono uno scudo immaginario dietro
al quale si illudono di stare al sicuro”. Così
non si va da nessuna parte. Occorre valorizzare
la grande dinamica degli affetti e dei
corpi, dando senso a parole come futuro,
lavoro, politica, desiderio, libertà. Dietrich
Bonhoeffer, teologo luterano tedesco, combattente
contro il nazismo, impiccato nel
campo di concentramento di Flossenburg,
scrisse, in “Resistenza e resa”: «Spesso
qui ho pensato a dove passino i confini tra
la necessaria resistenza alla sorte e l’altrettanto
necessaria resa. Dobbiamo opporci
altrettanto decisamente al destino quanto
sottoporci a lui a tempo opportuno. Non
è possibile definire in linea di principio i
confini tra resistenza e resa, ma è certo
che debbono essere presenti ambedue e
ambedue devono venire assunte con decisione.
La fede richiede questo atteggiamento
mobile, vivo. Soltanto così possiamo
reggere alle varie situazioni del presente
e renderle feconde”.

pubblicato il 3 giugno 2011

Cultura "alta", cultura "bassa"


Inizio con un po’ di etimologia: la
parola “cultura” deriva dal latino “còlere”,
cioè “coltivare”. La cultura, quindi,
è simile ed ha la stessa origine della
“coltura” delle piante, degli alberi, dei
fiori. Coltivare, cioè attendere con cura
alla pianticella, seguirne lo sviluppo, la
crescita, liberandola da erbe infestanti
e da parassiti. Una bella metafora per la
“cultura”, nel significato con cui usiamo
oggi la parola. Si parla di “cultura alta”
e “cultura bassa”: ebbene, nel mondo
anglosassone, da tempo, un filone di
studi, che si chiama “cultural studies”,
mette in combinazione la sociologia, la
critica letteraria, gli studi sulla produzione
di film e video e l’antropologia culturale,
in uno studio inedito e contaminato
dei fenomeni culturali nelle società
industriali. L'interdisciplinarietà è fondamentale:
un’ottica a tutto campo, che
mescola e non separa, in cui non esistono
concetti come “alto” e “basso”, e
che spesso concentra la propria attenzione
sui meccanismi con cui un particolare
fenomeno culturale entra in relazione
con le ideologie, la classe sociale,
l’appartenenza etnica e/o di genere.
La cultura non è più solo quella di élite,
ma anche la cultura di massa e la
popular culture: la cultura come modo
di vivere, che si esprime tanto attraverso
le istituzioni e i comportamenti del
quotidiano, quanto attraverso l’arte e
la letteratura. I “cultural studies”, quindi,
stanno in rapporto con i significati e
le pratiche del vivere quotidiano; indagano
i modi con cui le persone fanno
cose specifiche, come guardare la televisione,
o pranzare fuori di casa. La tradizione
di ricerca è quella della scuola
di Birmingham, con Richard Hoggart,
Raymond Williams ed E. Thompson.
Assunto fondamentale è che la cultura
debba essere presa molto sul serio, in
quanto è un ambito indipendente della
società. Elemento molto importante
è che le pratiche e i simboli della vita
quotidiana non devono essere analizzati
in modo separato, ma connessi alla
questione del potere, perché, attraverso
i simboli, si può leggere come lavora
il potere. Analizzate i palinsesti televisivi,
suggeriscono, tra le altre cose, i
“cultural studies”, e potrete compiere
un ragionamento approfondito su come
si articolano le forme del potere del
momento. Sappiamo che è vero.

pubblicato il 27 maggio 2011

Mappe, carte, finestre


Fu Strabone, intellettuale e geografo
nativo dell’Asia minore, vissuto a
cavallo del passaggio all’era cristiana,
a suggerire la rappresentazione del
mondo su fogli di carta piani, adottando
una scala. La storia della rappresentazione
del mondo attraverso mappe
e carte è affascinante: Anassimandro,
nel 550 a.C., disegnò il mondo abitato,
Tolomeo Claudio, nel II secolo d.C.,
fu in grado di determinare la longitudine
e la latitudine di talune località e di
realizzare una ventina di carte regionali
del continente europeo; Raimondo
Lullo, nel 1305, disegnò l’affascinante
albero della scienza. Ne parlerò brevemente:
le radici sono i principi trascendenti
o dignità divine e i principi relativi
dell’arte; i rami costituiscono la silva
delle scienze, ciascuno dei quali, a sua
volta un vero e proprio albero, si divide
in sette parti (radici, tronco, branche,
rami, foglie, fiori e frutti). Tra questi
rami, l'arbor semplificalis, nel quale si
espongono figurativamente tutti i contenuti
del sapere, perché la scienza si doti
di una dimensione letteraria che la renda
atta alla divulgazione, e l’arbor quaestionalis,
che affronta tutta la materia
in forma di domande. E’ interessante
proprio questo aspetto: l’unità sistematica
del sapere è garantita, ma al suo
interno c’è uno spazio importante per la
dimensione della domanda. Aristotele
sapeva che l’anima non pensa senza
immagini, e da sempre, possiamo
dire, la filosofia ha affrontato la sfida
di dare una rappresentazione sensibile
alle idee. Rappresentazione e misura:
due termini fortemente filosofici, due
termini della cartografia. Il fiammingo
Gerhard Kremer, o Gerardus Mercator,
nel 1569 ideò un sistema di proiezione
noto come proiezione di Mercatore, e fu
il primo a utilizzare la parola “atlante” per
indicare una raccolta di carte. Atlante era
il Titano condannato da Zeus a reggere
sulle proprie spalle l’intera volta celeste,
come punizione per aver partecipato alla
rivolta contro gli dei olimpici. Gli atlanti
sono finestre sul mondo: la finestra
separa e unisce, è soglia, introduce al
mistero del mondo al di là del nostro stare
e induce ad andare, oppure convince
al posizionamento: “stare alla finestra”, è
un modo di dire per il disimpegno. Tutto
il mondo può essere letto come una sfolgorante
foresta di metafore.

pubblicato il 20 maggio 2011

Esempi


Nella Grecia classica, la “kalokagathìa”
era la perfezione morale, la
probità perfetta, la somma di ogni virtù,
uno degli ideali più ambiti dell’uomo
greco. Proprio, in origine, di una
classe ristretta, quella degli aristocratici,
questo ideale divenne, nel tempo,
l’aspirazione di chiunque volesse
distinguersi dalla massa degli uomini
comuni. Diogene Laerzio, nella sua
opera “Le vite e le opinioni dei più illustri
filosofi”, in dieci libri, dà conto delle
biografie dei più illustri rappresentati
di ogni scuola filosofica, in particolare
di quelli che, sotto il nome di Sette
Sapienti, sono citati nel “Protagora”
di Platone: tra gli altri, Talete, Pittaco,
Solone, Cleobulo, Chilone, Anacardi,
che furono considerati dalla tradizione
i depositari della più antica esperienza
gnomica. Per essi, come anche
per Socrate, Antistene, Platone e
Aristotele, non sempre è dato stabilire
la genuinità delle sentenze o la
veridicità dei fatti narrati, poiché chi
raccolse tali materiali, seguendo tradizioni
diverse, non si curò di sceverare
il materiale che avesse un sicuro
fondamento storico da quello puramente
popolare. In ogni modo, quelle
biografie, gli aneddoti, le sentenze
contenute nel testo di Diogene erano
materia viva sulla bocca del popolo,
che dimostrava grande ammirazione
per gli uomini più illustri del suo tempo
e del tempo passato. Li considerava
esempi. La “kalokagathìa come
perfezione umana, l’unione di bellezza
e valore morale. Etica ed estetica, in
stretta relazione. Se ampliamo il concetto
di bellezza ad una dimensione
che vada al di là dei tratti somatici,
ma racchiuda significati polisemici e
di valore metaforico, potrebbe configurarsi
una grande lezione anche per
il nostro tempo presente.

pubblicato il 13 maggio 2011

L'esistenza politica


Uno dei nuclei fondamentali della
riflessione di Hannah Arendt (nella foto),
grande filosofa tedesca, emigrata negli
Usa a causa della persecuzione nazista,
è lo studio del fenomeno del totalitarismo.
Arendt parla, a questo proposito,
di una frattura nella storia d’Europa, una
"lacuna tra passato e futuro". Lacuna
che si collega al concetto di autorità della
tradizione, che cementa il legame con
il passato, ma, attraverso fraintendimenti
e mutamenti di senso del pensiero, ne
crea un senso ambiguo.
Ne deriva, dice Arendt, anche la crisi
del concetto stesso di educazione,
visto che chi se ne assume il compito
deve mediare tra nuovo e vecchio.
“L’educazione è il momento che decide
se noi amiamo abbastanza il mondo
da assumercene la responsabilità e salvarlo
così dalla rovina, che è inevitabile
senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei
giovani”. L’assunzione di responsabilità
è un grande tema della filosofa, che
lei sviluppa anche in rapporto all’analisi
problema ebraico e dell’antisemitismo.
La condizione ebraica, simbolo dell’alienazione
dell’uomo nel mondo moderno,
può costituire un punto di partenza
per cercare una dimensione autentica
dell’esistenza politica, nella quale sia
possibile riconoscere il significato della
propria nascita, della propria appartenenza
al mondo: poiché la nascita è
una “irriducibile unicità”, che però inserisce
l’individuo sulla scena del mondo,
in una rete relazionale, in una pluralità
umana, cosicché può trasformarsi nella
capacità di trascendere la propria singolarità,
nel conseguimento di fini condivisi.
L’ebraismo di Arendt è assai lontano
dalla cultura dell’assimilazione: l’autrice
sceglie la posizione di chi accetta
di essere un libero pariah, assumendo
la condizione della diversità e dell’esilio,
piuttosto che un integrato privo di
identità politica e culturale. L’agire libero:
esporsi, apparire, riconoscere e farsi
riconoscere. Una posizione che Arendt
conferma nella sua idea di uno Stato
ebraico: più che uno Stato, una patria
ebraica, uno spazio unico, un mondo
comune, in cui ebrei e arabi non solo
potessero sopravvivere, ma anche recuperare,
attraverso l’azione politica libera,
il senso autentico della loro esistenza.
Vivere nella patria ebraica significava,
per Hannah Arendt, appartenere ad
una comunità politica fondata sull’azione
libera e responsabile. Ma perché questo
spazio pubblico della realizzazione e
del compimento del sé potesse essere
costituito, riconosciuto e difeso come
condivisione del potere, come diritto di
parlare e di essere ascoltati, era necessario
rifiutare gli aspetti più nazionalistici
del sionismo e che, pur mantenendo
le loro aspirazioni ad operare entro una
cornice politica e culturale nazionale,
riconoscere i diritti delle altre nazionalità.
Gli avvenimenti in quell’area del mediooriente
dimostrano quanto queste idee
fossero lungimiranti.

pubblicato il 6 maggio 2011

La lingua materna


L’Accademia della Crusca nasce nel
decennio 1570-1580, a Firenze, dalle
riunioni di un gruppo di amici che si
dettero il nome di "brigata dei crusconi".
Il nome alludeva alla volontà di differenziarsi
dalle pedanterie dell'Accademia
fiorentina, ma presto si manifestarono
intenzioni letterarie, dispute e
letture, rivolte in particolar modo verso
opere e autori volgari.
E’ con Lionardo Salviati, detto l’Infarinato,
giunto nel 1582, che l’Accademia
assume il ruolo normativo rispetto
alla lingua italiana che a tutt’oggi mantiene.
Lo stesso termine “crusca” viene
assunto per usare la simbologia relativa
alla farina, separando il fior di farina
(la buona lingua) dalla crusca.
La lingua modella relazioni, azioni,
affetti. Prima di tutto viene la lingua,
la lingua materna. Il pensiero mistico
adopera nel medioevo il volgare, lingua
della parlata quotidiana, per affrontare
il legame con Dio, perché in esso si
ravvisa una ricchezza che nasceva da
uno scambio più intenso con la realtà
e con il contesto. Soprattutto l’esperienza
femminile della lingua è molto
intensa. Scrive la filosofa Chiara
Zamboni: “[…] la lingua materna può
portare luce, attraverso le prime esperienze
dell’infanzia con la madre, affettive
e di senso al medesimo tempo, a
questioni più legate allo studio stesso
della lingua. […] Soprattutto l’arbitrarietà
del rapporto tra il significante e
il significato e tra il segno e il referente”.
Attorno alla questione della lingua
materna se ne aprono altre, come
quella del rapporto tra la lingua materna
e le altre lingue che si imparano,
quella dello scambio con gli stranieri in
Italia, e il rapporto tra la lingua materna
e i saperi, che hanno lingue tecniche.
Continua la filosofa: “Le bambine
e i bambini entrano in rapporto diverso
con la lingua materna, perché hanno
un rapporto diverso con la madre. Una
bambina ha un rapporto d’amore con
la madre e in un secondo momento,
quando costruisce una propria identità
entrando in modo attivo nel linguaggio,
si trova a rielaborare il legame con
la madre sulla base di una identità di
genere, che è costruita socialmente
e secondo codici, e che è in comune
con lei. Un bambino ha un rapporto
originario d’amore con la madre, però
costruisce la propria identità sulla figura
maschile. Per cui ha un legame e
uno slegame con la madre e quindi con
la lingua materna. Una bambina invece
ha un doppio legame con la madre
e un rapporto di continuità con la lingua”.
E, grazie alla capacità simbolica
della lingua materna, nasce un vero e
proprio rapporto ludico con il mondo.
Lingua e gioco, fantasia, filastrocche,
poesie, calembours, giochi linguistici,
fino ad arrivare ai giochi linguistici del
grande filosofo Wittgenstein, secondo
il quale il linguaggio è caratterizzato
da una molteplicità di forme che non
può essere stabilita una volta per tutte:
il linguaggio è un'attività o una forma
di vita. Cosa sono i giochi linguistici?
Per esempio, dice il filosofo austriaco:
dare ordini, eseguirli, descrivere un
oggetto, riportare un evento, riflettere
su un evento, recitare cantare, fare
uno scherzo o raccontarlo, tradurre da
una lingua all'altra, chiedere, ringraziare,
augurare, pregare... E così, sembra
che torniamo, in un certo senso, a quegli
antichi giochi fiorentini, i giochi dei
crusconi.

pubblicato il 29 aprile 2011

venerdì 2 settembre 2011

LA SFIDA DI SISIFO


Un soggetto morale padrone della propria vita e dunque anche, per quanto è possibile, della propria morte. La discussione sul concetto di morte nel Novecento raccoglie e rielabora l’eredità di Kierkegaard, pensatore in cui non è presente alcuna concezione oggettivizzata della morte (come per esempio accadeva in Hegel, per il quale la morte dell’individuo è sempre e comunque inscritta all’interno del processo dialettico). L’interesse di Kierkegaard è di tipo esistenziale: al filosofo danese interessa analizzare il percorso attraverso il quale il singolo, ‘gettato’ nel mondo dallo ‘scacco ontologico’ costituito dalla nascita, realizza la propria autenticità attraverso l’infinito ventaglio di possibilità che appunto la sua condizione di essere gettato nel mondo gli offre. La morte, per Kierkegaard, non è concettualizzabile: è un evento singolo, individuale, è qualcosa che riguarda solo l’individuo e, in quanto tale, è inconcepibile e irrappresentabile. L’ineluttabilità della morte e il fatto che non si possa conoscere il momento in cui essa giungerà la rendono il limite per eccellenza della condizione umana, l’aporia principale. Limite, ma allo stesso tempo l’orizzonte di senso nel quale la vita si innesta. Heidegger radicalizzerà il senso della morte come 'un’esperienza della vita', in quanto l’esserci dell’essere dell’uomo è un essere-per-la-morte. Vivere secondo una modalità autentica significa riconoscere la morte come la possibilità radicale della propria esistenza. Il mito di Sisifo è noto: la punizione a cui è sottoposto nell’Ade consiste nello spingere un masso fino alla sommità di un colle ma, poco prima di giungere alla sommità, il masso gli sfugge sempre, rotolando a valle. Sisifo è stato condannato a questa pena per un determinato motivo: egli ha ingannato la morte. Cosa vuol dirci il mito? Forse che si può infliggere una punizione alla volontà di sfuggire alla morte solo con un terribile prolungamento della vita. Ha scritto il grande filosofo Gadamer: “Quando lessi il mito mi venne di colpo in mente l'uso che oggi gli uomini ne fanno: «Mio Dio! Noi siamo tutti un po' su questa strada, prolunghiamo artificiosamente la vita». Prosegue Gadamer: si ha diritto alla morte, perché si è uomini liberi e perché lo scopo della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che fare con un uomo il cui volere deve esser rispettato. Anche se “nella prassi diviene però molto più difficile poiché il morire, l'agonia stessa, è un lento paralizzarsi della libera possibilità di decidere in cui l'uomo vive come uomo consapevole e sano”. Questioni emergenti oggi, in cui parliamo del cosiddetto “testamento biologico”. Non è superfluo ricordare quanto detta, all’art. 32, la Costituzione italiana: “[…] Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

pubblicato il 22 aprile 2011