venerdì 30 dicembre 2011

un ottovolante e tante pietre

Un ottovolante che va solo in discesa: è l’ardita metafora che qualcuno utilizza per il nostro tempo. Incuriosito, ho letto un po’ di storia dell’ottovolante, altrimenti definito “montagne russe”. Scoprendo alcune cose assai interessanti: la prima è che il treno delle montagne russe non ha freni. Esistono solamente dei blocchi lungo il percorso. Già la metafora si sviluppa: quali possono essere i freni, i cunei capaci di bloccare il treno su cui siamo saliti, o di nostra volontà o spinti a forza, o, più semplicemente, condividendo un destino comune? E ancora: l’origine di tale divertimento risale ai secoli XVI e XVII, quando, appunto in Russia, venivano costruiti scivoli ghiacciati su cui scivolare con una slitta. La slitta, man mano che perdeva l’impulso iniziale, perdeva anche velocità. Non c’era possibilità di ulteriore impulso lungo il tragitto. Rifletto: nel 2011 che sta per chiudersi, attorno al 31 ottobre, siamo in sette miliardi su questa nostra Terra. Questo ci fa paura? Un po’ sì, ammettiamolo. Pensiamo al mito greco, quando Deucalione e Pirra, sopravvissuti al diluvio universale, scagliano dietro le spalle, seguendo il responso dell’oracolo di Temi, le “ossa della Terra”, cioè le pietre, da cui nasceranno uomini e donne. Quale monte si può costruire con sette miliardi di pietre? Eppure, è da questo monte che possiamo trarre speranza e forza. Sette miliardi di esseri che devono sfamarsi, consumare, vivere; ma anche sette miliardi di cervelli che potrebbero e dovrebbero esprimere tutto il loro enorme potenziale. Altro che l’intelligenza artificiale. Altro che i computer più potenti. Altro che il cloud computing. Sette miliardi di corpi ed anime capaci di desiderare, di sorridere, di pensare, di costruire, di avere intuizione, fantasia, arte combinatoria, orizzonti tra i più vari, immagini negli occhi tra le più diverse, storie personali e collettive affascinanti, intriganti, composite. La “Cronica” del Villani ci dice che, nella Firenze trecentesca (quella di Dante, Petrarca e Boccaccio, quella che sarà culla di Umanesimo e Rinascimento), su una popolazione media di 90.000 abitanti, almeno diecimila avevano frequentato la scuola primaria ed erano in grado di leggere e scrivere: numeri incredibili, per l’epoca. Fu un investimento, forse non voluto, che dette tanti e meravigliosi frutti. Se la creatività è combinazione di fantasia e concretezza; se questa crisi è davvero inedita, e inedite dovranno essere le forme per uscirne, è qui che bisogna investire, che bisogna dare valore. Il primo patrimonio dell’umanità è l’umanità stessa. Buon anno.

venerdì 23 dicembre 2011

Economia e Politica

Friedrich Engels non fu solo amico fraterno di Karl Marx e suo mecenate, ma studioso notevole, in specie di, potremmo dire, sociologia economica. In un suo scritto, “Violenza economica”, Engels, per contestare la teoria di Karl Dühring, economista tedesco, sul primato della violenza e sulla “proprietà fondata sulla violenza”, parte dalla teoria marxiana sul “diritto di proprietà”, che, con lo sviluppo della produzione di merci, diventa “diritto di appropriarsi lavoro altrui non retribuito”, per cui “la separazione tra proprietà e lavoro diventa conseguenza necessaria di una legge che in apparenza partiva dalla loro identità”. Tutto il processo viene spiegato da cause puramente economiche, nota Engels, “senza che neppure una sola volta ci sia stato bisogno della rapina, della violenza, dello Stato o di qualsiasi interferenza politica”. Questa analisi lucida ed impietosa della potenza dell’economia, che detta le proprie condizioni al di là della politica, torna alla memoria inevitabilmente, quando si analizza la situazione di questi nostri tempi. Recentemente, il sociologo tedesco Wilhlem Heitmeyer ha affermato che “il principio di razionalità insito nell’economia ha permeato sempre più il nostro modo di pensare, facendosi strada nei salotti, nelle scuole, nelle relazioni sociali. E secondo questi standard, gli immigrati, i senzatetto, i disoccupati, gli inabili valgono meno …”. E non ci sono segnali di vero e proprio conflitto, ma “apatia e disorientamento”. Di più: pare che l’intera economia sia a rimorchio del sistema finanziario. Il linguaggio della finanza ha permeato ogni ambito della civiltà, del discorso quotidiano. Michael Wood ha ricordato che “a uno studente di Oxford che le aveva detto di volersi laureare in storia, pare che Margaret Thatcher abbia risposto: “che lusso”. Ovvio: la storia non è “utile”. Ma studiare la storia, per esempio, insegna che i mercati non esistono senza un insieme di regole, procedure, strumenti operativi cui devono sottostare operatori ed agenti; il laissez faire è mera ideologia – questa sì – inapplicabile nelle società organizzate. L’assetto dei mercati incide sulla struttura dell’offerta e della domanda, sulla determinazione dei prezzi e sulla formazione di eventuali sacche di privilegi. Su questo dovrebbe intervenire la politica, per eliminare storture ed eccessi. Ma la politica sembra paralizzata e prigioniera, tra i tanti, delle agenzie di rating. Intanto, i regolamentatori USA hanno proposto di eliminare ogni ruolo di queste agenzie nella valutazione di rischi finanziari. Cosa auguriamo? Che la politica riprenda il suo posto. Di mediazione e di relazione.

venerdì 16 dicembre 2011

Disincanto

Riflettevo che, tra le tante conseguenze della crisi di questi nostri tempi, dalla portata tale che serviranno molti anni per valutarle fino in fondo, emerge il tema del disincanto. Il grande teologo Dietrich Bonhoeffer, vittima del nazismo, sosteneva che l’ora del disincanto è “quell’ora imprevista e sconvolgente che provoca a cogliere il senso totale della vita”. Avremo tempo e modo di riflettere quanto la nostra incertezza scaturisca anche dal disincanto profondo che, nella vita e nel pensiero collettivo, ha portato la fine delle ideologie novecentesche, quegli apparati di pensiero che, in mezzo a tante tragedie, potevano far iscrivere il percorso di una singola vita in un orizzonte collettivo. Ma il disincanto è anche una condizione per il ritorno alla condizione libera. Il pensiero disincantato si desta da un sogno mortale e si pone domande: che cosa è successo? Perché è successo? Noi siamo il prodotto di energie fisiche ed intellettuali. Il corpo è governato dalle passioni, ma anche la mente. Il disincanto ci cambia in profondità. Si esce dalla favola bella, da una costruzione logica e strutturale che si voleva perfetta, capace di dare tutte le risposte, da una narrazione spesso ad hoc, per tornare ad abitare il dubbio e l’incertezza, per uscire dalla dimensione della risposta per accedere a quella della domanda. Con l’esperienza del disincanto il mondo che ci circonda ed il nostro mondo interiore non saranno mai più gli stessi: si perde la fiducia nei riferimenti precedenti, si acquista la capacità di camminare senza sostegni. Un passo dopo l’altro, un pensiero dopo l’altro, una domanda dopo l’altra. È come quando si cambia prospettiva, di colpo. Quando da un paesaggio si passa bruscamente ad un altro. Il filosofo Wittgenstein diceva: “guardala così”. Muta l’angolazione dello sguardo, la rifrazione di una luce, il suono di una voce, e l’incanto si spezza. È il disincanto. Dolorosa, ma è la libertà.

venerdì 9 dicembre 2011

Basta poco

Trovo geniale il titolo di un libro di Antonio Galdo: “Basta poco” (per i tipi di Einaudi). Anche Vasco Rossi ha scritto una canzone con lo stesso titolo. Il cantautore dice: “E d'altronde è questa qui la realtà di questa vita: ci si guarda solo fuori, ci si accontenta delle impressioni”. Già, basta poco, per essere catturati dalla spirale consumistica apparire-procacciarsi beni-alzare il tiro del desiderio, che, per sua natura, mai può essere appagato. Si desidera allora la cosa ed il nome della cosa: il possesso della cosa diventa un punto di appoggio, di conferma del sé. Il possedere diventa una relazione simbolica e non più solamente fattuale. Ancora Lacan: “Che un nome, per quanto confuso, designi una persona determinata, in questo consiste esattamente il passaggio allo stato umano. Se si dovesse definire in quale momento l’uomo diventa umano, diremmo che è nel momento in cui, per quanto poco, entra nella relazione simbolica”. L’acquisire cose, oggetti, roba sta quindi in una dimensione profondamente simbolica. Già Oscar Wilde sosteneva: viviamo in un’epoca in cui il superfluo è l’unica nostra necessità. E la stessa comunicazione odierna sembra finalizzata non a produrre domanda, ma a riproporre il bisogno. Ora, ci dice Antonio Galdo, occorre sottrarci al desiderio di consumo, troppo spesso sinonimo di spreco. La crisi può essere un’opportunità. Fermiamo la corsa. Gualdo comunica anche attraverso un sito Internet, www. nonsprecare.it . Leggiamo qualche riga sua: “La tecnologia punta a sviluppare, ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo, più tecnologia. E non è mai neutrale nella sua crescita insaziabile. Può devastare l’ambiente, quando il suo uso si manifesta sotto forma di violenza rispetto all’equilibrio naturale, ma può anche salvarlo, specie se applicata secondo la bussola della sostenibilità. Genera ricchezza, sia per i capitali investiti sia per il lavoro che crea, ma rischia di impoverirci quando ne perdiamo il controllo e la subiamo passivamente. Lo scarto, la differenza tra il segno positivo e quello negativo, è legato a una fondamentale variabile: la capacità dell’uomo, come individuo, come azienda e come società, di governare l’ineluttabile e appassionante sviluppo dei mezzi rispetto ai fini. Qui si gioca la vera partita con il futuro che tutti ci auspichiamo portatore di progresso, di crescita diffusa e di riduzione delle diseguaglianze del mondo globale”. Un nuovo umanesimo, dice Gualdo poco dopo. Ci torneremo.

sabato 3 dicembre 2011

Saper capire il mondo

 Scrisse il grande Karl Kraus: “l’arte mette in disordine la vita… i poeti dell’umanità ristabiliscono ogni volta il caos”. Parrebbe un’affermazione paradossale, mi sembra invece molto utile nel mondo di oggi, proprio perché la crisi che lo scuote dovrebbe poter metter in luce pratiche innovative, fantasia, inventiva ed invenzione. E, per tutto questo, occorre la cultura. La cultura in questo caso non è la parte fiorita del celebre detto “il pane e le rose”, ma è proprio il pane. Senza cultura non ci salveremo, questo deve essere chiaro a tutti. Temo che la percezione corrente sia che la cultura sia fruita solo come “divertimento”. Questa percezione elitaria purtroppo sconfessa la teoria della cultura come “public goods”, pubblica utilità. La cultura contribuisce fortemente allo sviluppo sociale ed economico ed è una spinta all’innovazione e quindi alla competitività. La cultura promuove l’integrazione delle differenti componenti della società civile nel rispetto della loro diversità. Leggiamo in un documento dell’Unione europea: “Per i giovani, che dovranno adattarsi a sempre nuove condizioni di accesso all'occupazione e all'evoluzione del lavoro e pertanto, pur essendo aumentate le possibilità di aver accesso alle informazioni e al sapere, è comunque ed a maggior ragione necessaria una modificazione delle competenze acquisite per poter affrontare adeguatamente i nuovi sistemi di lavoro, pena situazioni di incertezza, o peggio, di esclusione dal mondo produttivo. Poiché la società diviene sempre più una "società conoscitiva", l'istruzione e la formazione saranno a loro volta sempre più i principali vettori di identificazione, di appartenenza, di promozione sociale e di sviluppo personale. Ma considerare l'istruzione e la formazione in relazione con il problema dell'occupazione non significa che l'istruzione e la formazione debbano ridursi ad un'offerta di qualificazioni. L'istruzione e la formazione hanno sempre come funzione essenziale l'integrazione sociale e lo sviluppo personale, mediante la condivisione di valori comuni, la trasmissione di un patrimonio culturale e l'apprendimento dell'autonomia”. L’evoluzione della società verso una sempre maggiore complessità comporta già oggi, e sempre più in futuro, che si sia in grado di interpretare quel che accade, di saperlo in qualche modo pre-figurare, di sapervi far fronte, disponendo di capacità di adattamento intelligente. Occorre, insomma, saper capire il mondo. Per questo, e per stare meglio nel mondo, saperne godere la bellezza, la vivacità, con curiosità e coraggio, occorre cultura. La cultura è un diritto di tutti, giovani e vecchi, uomini e donne. Chi non lo capisca è destinato davvero al default.