sabato 28 luglio 2012

Un folle, ovvero il mondo


A che cosa può servire un libro “che non è né istruttivo, né divertente, né filosofico, né elegiaco, che non parla né di chimica né di agricoltura, un libro che non dà nessuna ricetta né per le pecore né contro le pulci, che non parla né di ferrovie, né della Borsa, né dei recessi del cuore umano, né della foggia degli abiti medievali, né di Dio, né del diavolo, ma che parla di un folle, ovvero del mondo, questo grande idiota, che gira da tanti secoli nello spazio senza fare un passo e che urla, sbava, che dilania se stesso?”. Sono le “Memorie di un folle” di Gustave Flaubert. Il mondo folle, come in un’opera di Hieronymus Bosch, pittore così descritto dalla penna magistrale di Dino Buzzati: “Bosch nasce nel 1460 in Olanda, ducato di Borgogna; il suo tempo è a cavallo tra la fine di un’era, il Medioevo e l’alba del Rinascimento. L’arte fiamminga ha sempre interpretato con inquietudine questo tempo di guerre, di violenze e di fanatismi religiosi, in cui l’inquisizione apre la caccia alle streghe e la persecuzione della magia. È in atto una crisi dei valori che nella seconda metà del XV secolo è avvertibile in tutta Europa e che culminerà nella riforma luterana. Ma Bosch ne parla con originalità, è infatti conosciuto per le sue opere enigmatiche e inquietanti, per le immagini fantastiche, demoniache, per i simboli, e le creature che sembrano aver poco di reale. Tutto ciò però non è soltanto il frutto di una fantasia sfrenata: sono immagini della cultura alta e popolare. Di classe agiata, frequentava associazioni laiche, ma molto cristiane. Muore nel 1516; ma fu per la città di quel tempo un personaggio fuori dal comune, importante, rispettabile e rispettato”. Rispettato, anche nella sua apparente follia: “Lo si conosceva così, dalla sua risata – non dalle parole o dal suo modo di dipingere, ma dal suo riso. La sua fama di folle ha presto rimpiazzato la sapienza che cercavamo in lui; sapevamo bene che folle è colui che ha lo sguardo più fino sul mondo. Il folle è diverso, perché sa porsi al di fuori della realtà – e riderne, appunto. Non è forse la follia a rendere l’uomo libero?”. Non è forse la follia che sembra abitare tante apparenti “normalità” dei nostri tempi? E forse non sono stati giudicati folli, molte volte, comportamenti controcorrente, diversi, insoliti, contrari alla morale imperante? Non era forse un folle Francesco? O Gandhi? O lo stesso Cristo? Quante volte il mondo li ha rinnegati, ed ha così dilaniato se stesso. 

sabato 21 luglio 2012

Un "cuore pensante"


"La vita è difficile, ma non è grave". Olandese, di famiglia ebraica, nata nel 1914, Etty Hillesum si laureò in giurisprudenza ad Amsterdam. Era una giovane donna appassionata, di intelligenza vivace e capace di riflessioni molto profonde, a volte abbaglianti. Un “cuore pensante”. Etty Hillesum e la famiglia subiscono, a partire dall’estate del 1940, come tutti gli olandesi, l’occupazione nazista. nazista del popolo ebraico. Etty dapprima scrive: “Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa. Repulsione. Paura”, per poi giungere a “Bene, accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se gli altri non capiranno cos'è in gioco per noi ebrei. [...] Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato”. Affida ad un diario (scritto tra il marzo del ’41 e l’agosto del ’43) il suo percorso spirituale: sarà l’opera che la farà conoscere, insieme alle sue lettere, anche se con ritardo, negli anni Ottanta dello scorso secolo. Iniziano le deportazioni di ebrei nei campi di sterminio (di cui è simbolo la giovanissima Anna Frank): Etty potrebbe forse salvarsi, ma parte volontariamente per Westerbork, il campo di transito usato dai nazisti prima della deportazione verso Auschwitz, perché non intende sottrarsi alla sorte comune. Etty e il suo “altruismo radicale” (così Dario Arkel e Elena Petrassi): “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Nel diario e nelle lettere leggiamo il suo itinerario della mente e dello spirito verso Dio, il racconto di amori e rapporti umani, l’empatia totale con l’altro. Una sovrabbondanza di vita: “E’ vero che vivo intensamente, a volte mi sembra di vivere con un’intensità demoniaca ed estatica, ma ogni giorno mi rinnovo alla sorgente originaria, alla vita stessa, e di tanto in tanto mi riposo in una preghiera”. Ella stessa racconta di essersi ritrovata, un giorno, “spinta a terra da qualcosa che era più forte di me”, per cui “si deve avere anche il coraggio di pronunciare il nome di Dio”, perché “Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di lui”. E, nell’ultima lettera di Etty, leggiamo: “Dio è in buone mani”. Viene deportata ad Auschwitz e lì muore, il 30 novembre del 1943, a 29 anni, con il padre, la madre e un fratello. Aveva scritto, in piena occupazione: “Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare sé stessi” non è proprio una forma di d'individualismo malaticcio. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. E' l'unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d'eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra”.

sabato 14 luglio 2012

Una patologica, efficace razionalità


In alcuni bellissimi testi dei primi anni ’70, Gilles Deleuze e Felix Guattari, a seguito del loro lavoro su “L’anti-Edipo”, indagano sulla natura del capitalismo, mettendo in luce, in particolare, un nesso inedito, tra capitalismo, desiderio e schizofrenia. «Non c’è nessuna operazione, nessun meccanismo industriale o finanziario che non riveli la follia della macchina capitalistica e il carattere patologico della sua razionalità (non una falsa razionalità, ma una vera razionalità di questa patologia, di questa pazzia, perché la macchina funziona, siatene certi). Non c’è pericolo che questa macchina impazzisca, lo è fin dall’inizio, ed è in questa pazzia che trova la sua razionalità». Parole che rileggo sovente, nel riflettere su meccanismi, parole ed azioni che vediamo svolgersi sotto i nostri occhi, se appena intendiamo andare oltre la corsa dello spread. Pensiamo ad un premier che parla di “guerra”: si tratta di un linguaggio devastante. Pensiamo: in guerra l'emergenza è massima, si contano i morti ed i feriti, ci si sacrifica senza giustizia ed equità per ottenere la vittoria. L’alternativa è tra uccidere o morire. La democrazia è sospesa. Non a caso, Monti ha detto “siamo in guerra” ed ha criticato pesantemente la “concertazione” (quindi la mediazione), parlando all’Abi, cioè alle banche: un ambito in cui giustizia ed equità proprio sono fuori contesto. Nella stessa giornata, la Bce (pensiamo: Banca centrale europea) detta ai governi ulteriori regole in materia di politiche economiche e salariali. Temo che sia in atto una svolta di tipo autoritario, che rischia di essere epocale. Lo Stato moderno si è costituito, superando il vassallaggio, attraverso la stipula di un patto sottoscritto tra gli individui non ancora associati. Con questo patto, si cedeva una quota di “libertà” individuale (sottostando a delle regole), in cambio di un sistema di protezione e di rete. Oggi, lo Stato, gli Stati si stanno sottraendo a questo patto fondativo. Non esiste più contrattualismo, bensì imposizione e pratiche predatorie, con una governance dettata dall’economia, dalla finanza, apparentemente non politica, che invece lo è profondamente. La democrazia è conflitto, ma non guerra; è dissenso e assenso, in libera contrattazione, non vassallaggio e servaggio, giustificati da una continua emergenza. Non mi hanno mai affascinato le previsione di apocalittici scenari, ma mi sembra di intuire che qualcuno pensi alla costruzione di una sorta di sistema neofeudale (appunto, il vassallaggio), retto da tecnocrazia e finanziarizzazione. E' una feroce, cattiva riorganizzazione del capitale, della sua razionalità patologica. E, se Deleuze e Guattari avessero ragione, funzionerà.

sabato 7 luglio 2012

La qualità di un'epoca


Un’immensa quantità di informazioni viaggia ogni secondo in tutto il mondo. Milioni di miliardi di dati, ogni secondo. Apparati elettronici, circuiti integrati, macchine, elementi materiali e immateriali: ma niente che, ancora, possa competere con la mente umana. E’ stato calcolato che un computer che volesse simulare un essere umano dovrebbe compiere un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, con un impatto energetico infinitamente superiore a quello che serve ad una persona per vivere. E’ interessante ragionare in questi termini, per riflettere sempre di più su quanto straordinario e irripetibile siano il corpo e la mente umana. Ma che cos’è, l’uomo? Non si potrebbero contare in una vita le pagine, i volumi, i tomi che sono stati scritti sull’argomento. Giovanni Pico della Mirandola, pensatore rinascimentale, sosteneva che l’uomo, tra tutte le creature, è un indeterminato: “animale di natura varia, multiforme e cangiante”. Caratteristiche che sarebbero alla base della libertà e dell’autonomia umane. Ma già Origene, grande teologo dell’età tardo antica, che subì la distruzione delle sue opere, comandata da Giustiniano, in quanto condannato dal concilio di Costantinopoli del 533, sosteneva che, al di là delle leggi fisiche che ci governo, l’uomo agisce per un atto individuale di volontà. L’uomo è un indeterminato di per sé, ma capace di essere ciò che vuole essere. Un’iniezione di libertà cognitiva e comportamentale, straordinaria per l’epoca e per il determinismo intellettuale che dominava. Non a caso, da Pico, prima citato, a Erasmo, a Shaftesbury, fino a Kant (nella foto) e a Schelling, Origene è un punto di riferimento, un “buon maestro”. L’autonomia kantiana (libertà e necessità coesistono nel concetto di autonomia, quando l’uomo obbedisce ad una legge che liberamente si è dato) affonda qui le sue radici. Ecco, quindi, il valore di quell’apparato capace di un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, capace di libertà e di regola, di autonomia e di relazione, quell’apparato di pensieri, carne, ossa che chiamiamo essere umano. 

sabato 30 giugno 2012

Un apparato che chiamiamo essere umano


Un’immensa quantità di informazioni viaggia ogni secondo in tutto il mondo. Milioni di miliardi di dati, ogni secondo. Apparati elettronici, circuiti integrati, macchine, elementi materiali e immateriali: ma niente che, ancora, possa competere con la mente umana. E’ stato calcolato che un computer che volesse simulare un essere umano dovrebbe compiere un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, con un impatto energetico infinitamente superiore a quello che serve ad una persona per vivere. E’ interessante ragionare in questi termini, per riflettere sempre di più su quanto straordinario e irripetibile siano il corpo e la mente umana. Ma che cos’è, l’uomo? Non si potrebbero contare in una vita le pagine, i volumi, i tomi che sono stati scritti sull’argomento. Giovanni Pico della Mirandola, pensatore rinascimentale, sosteneva che l’uomo, tra tutte le creature, è un indeterminato: “animale di natura varia, multiforme e cangiante”. Caratteristiche che sarebbero alla base della libertà e dell’autonomia umane. Ma già Origene, grande teologo dell’età tardo antica, che subì la distruzione delle sue opere, comandata da Giustiniano, in quanto condannato dal concilio di Costantinopoli del 533, sosteneva che, al di là delle leggi fisiche che ci governo, l’uomo agisce per un atto individuale di volontà. L’uomo è un indeterminato di per sé, ma capace di essere ciò che vuole essere. Un’iniezione di libertà cognitiva e comportamentale, straordinaria per l’epoca e per il determinismo intellettuale che dominava. Non a caso, da Pico, prima citato, a Erasmo, a Shaftesbury, fino a Kant (nella foto) e a Schelling, Origene è un punto di riferimento, un “buon maestro”. L’autonomia kantiana (libertà e necessità coesistono nel concetto di autonomia, quando l’uomo obbedisce ad una legge che liberamente si è dato) affonda qui le sue radici. Ecco, quindi, il valore di quell’apparato capace di un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, capace di libertà e di regola, di autonomia e di relazione, quell’apparato di pensieri, carne, ossa che chiamiamo essere umano.

sabato 23 giugno 2012

Discrasie, contraddizioni, cortocircuiti. Ingiustizie


Ha scritto recentemente Zygmunt Bauman (nella foto), in un articlo sul quotidiano “La Repubblica”: non riusciamo più a ragionare in maniera efficace di una società giusta. Questo deriva dal fatto che non c’è un soggetto credibile che se ne faccia promotore. Poiché “tutto nasce dal divorzio sempre più evidente tra il potere - la facoltà di porre in atto un progetto - e la politica - la capacità di decidere che cosa fare o non fare”. E il potere è trasmigrato in buona parte dallo Stato-nazione a uno spazio globale sopranazionale. Siamo globalmente interdipendenti, ma i livelli di governo sono locali. Si chiede Bauman se sia giunto il momento di colmare questo divario, questo enorme intervallo. Non ne indica però gli strumenti: una sorta di “grande fratello” governativo globale? Questo comporterebbe gravi problemi di gestibilità e di garanzia democratica. Ma voglio sottolineare alcuni elementi: i livelli di governo (nel senso del governo politicoamministrativo) sono ormai gravemente deficitari dal punto di vista rappresentativo, nel senso “classico” del termine. Nel contempo, i soggetti realmente decisori sono notevolmente scostati e diversificati da quelli, ma ciononostante non esauriscono il potere decisionale in senso complessivo (una variante ad un piano regolatore, o una mancata variante, o una riforma del lavoro scellerata eccetera sono nella potestà di soggetti di governo del primo tipo, eterodiretti quanto si vuole, ma la potestà nelle assemblee elettive è loro). Poi ci sono coloro che - la stragrande maggioranza - non stanno né qui né là. Sempre più soggetti, tra questi, decidono di starsene in disparte, magari a difendersi dai colpi, oppure si impegnano al suono delle parole dei grilloparlanti di turno. Poi c'è una costellazione di altri soggetti, variamente interessati alla sfera pubblica. Non credo che sia più possibile un modello che li integri unitariamente. Qualcosa deve saltare. Ci sono troppe discrasie, troppe contraddizioni, troppi cortocircuiti, cose che non tornano, ingiustizie. Grandi.

sabato 16 giugno 2012

Gli apprendisti stregoni


In uno dei film più belli mai realizzati, “Fantasia”, di Walt Disney (film a tutti gli effetti, sofisticato, curatissimo,non semplicemente un lungometraggio di animazione), c’è un episodio dedicato all’apprendista stregone. Lo ricorderete: Topolino o Mickey Mouse, che dir si voglia, sulla musica di Paul Dukas, apprendista dello stregone Yen Sid, prova dei trucchi di magia senza però conoscere come controllarli. Le conseguenze sono immaginabili. l’episodio ha un retroterra molto colto: si tratta della ballata omonima che Wolfgang Goethe compose nel 1797, a sua volta ispirata a un episodio del Filopseudès, ovvero “l’amante del falso”) di Luciano di Samosata. Goethe narra di uno stregone che si assenta e del suo apprendista che decide di usare la magia per animare una scopa e fare le pulizie con nessuna fatica. Ma la scopa è incontrollabile, e si sfiora il disastro, rimediato, poi, al sopraggiungere dello stregone. La morale è chiara: meglio non cominciare qualcosa che non si sa come finire. L’immagine di Topolino che non sa come fermare la scopa da lui animata mi è tornata in mente, quando ho letto di alcuni sviluppi della ricerca sulla modificazione genetica. Amo i gatti, l’ho detto più volte, quindi sono rabbrividito ulteriormente, quando ho letto di gatti nel cui dna sono stati trasferiti geni di specie diverse, come quello di una medusa che li rende fluorescenti quando vengono osservati sotto la luce blu. Terribile. Si trattava, pare, di una ricerca condotta nell’ambito dello studio delle interazioni tra il virus dell’immunodeficienza felina e quello della sindrome di immunodeficienza acquisita. Ma i ricercatori hanno ammesso che la ricerca non sarà utilizzata direttamente sugli esseri umani. Allora, cui prodest? Gli animali non sono, non possono essere, non dovrebbero essere semplici pedine di una scacchiera eterodiretta; non sono sequenze geniche da manipolare, ma creature, a tutti gli effetti. Sono esseri senzienti, provano dolore, sentono l’affettività, ne manifestano. Sono convinto che chi faccia del male ad un animale potrebbe farlo anche ad un uomo. Sono convinto che questo archivio folle di pratiche manipolatorie stia lì, da una parte, per ora semplice (?) “gioco” scientifico, un domani applicabile anche – chissà – a creature “superiori”. Speriamo di no, ma gli apprenditi stregoni sono troppi e incontrollati. 

sabato 9 giugno 2012

Sembrava che la scuola fosse fatta solo per lui


Non me ne vorrete se, questa settimana, userò lo spazio che mi viene offerto per trascrivere ampie citazioni di un testo, ormai raro, ma molto attinente alla preannunciata, ennesima riforma della scuola, di cui ha parlato il ministro Profumo, che ha lanciato l’idea del “premiare i meritevoli”. Una grande idea? Intanto, non nuova: è anche in Costituzione, all’articolo 34: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. La questione è, credo: i capaci e meritevoli sono per definizione i più bravi? Sono i migliori? O non sono, piuttosto, quelli che si impegnano, che si pongono un obiettivo, che ne riconoscono il valore e si battono per raggiungerlo, mettendo in conto anche il possibile fallimento? Mario Lodi, maestro, scrittore, pedagogista, scriveva nel 1971: “Ho capito una cosa fondamentale, che ha dato al mio lavoro sempre nuovo vigore, quando venivano i dubbi: che la via per risolvere i problemi del nostro lavoro e della vita comunitaria è quella del mettersi insieme, perché l’individuo che risolve da solo tutti i problemi, per bravo e intelligente e doto che sia, non esiste. Nessuno può risolvere i problemi della gente se non si conoscono sino in fondo attraverso la viva voce dell’esperienza dei protagonisti. [Ritengo quindi] valida l’impostazione comunitaria del lavoro sia a scuola, sia nell’ambiente sociale esterno”. Una grande idea: praticare un’impostazione comunitaria del lavoro a scuola è valida palestra per trasferirla nel mondo. È l’idea per cui il risultato di un lavoro collettivo è sempre superiore alla somma dei lavori dei singoli. E, a proposito dei “più bravi”, leggiamo questo brano da “Lettera a una professoressa”, di don Lorenzo Milani e dei suoi allievi. Parlano della scuola di Barbiana, e dicono:“la vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare. Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse fatta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti”. Ci ritorneremo sopra.

sabato 2 giugno 2012

Pochi momenti come questi belli


Da molti anni, abbiamo una fenomenologia del calcio che si nutre, oltre che di simboli, di studi sociologici e linguistici. Espressioni calcistiche si sono inserite nel linguaggio della politica (lo “scendere in campo” di un ex presidente del consiglio); leggiamo ovunque metafore pallonare (chi ha un po’ più di anni, come me, ricorda il verbo "dribblare", usato in caso di comportamenti che schivavano ed evitavano). Resistono le partite nei campetti di oratorio, di periferia; nelle località di mare, la partita nel “gabbione” o sulla spiaggia è imperdibile. Il calcio ha prodotto istantanee stampate nel nostro immaginario: la rovesciata di Parola; il gol di Pelé su Burgnich; l’urlo di Tardelli. I miti, i simboli: penso a questo, quando ascolto le notizie sullo scandalo delle scommesse. Dice l’uomo della strada: ma come, guadagnano, a certi livelli, cifre iperboliche, incredibili, e poi lucrano anche sui risultati e vendono le partite? Ha terribilmente ragione. Scriveva il poeta Pier Paolo Pasolini, che era un grande appassionato di calcio e che lo giocava volentieri: «Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica». Se il calcio non farà grande, profonda, radicale pulizia (sempre che ciò sia possibile, sempre che l’infezione non consenta il recupero dell’arto), quella poesia, quella sovversione del codice, quel momento irripetibile da descrivere (ci ha provato un poeta, Umberto Saba), in cui le persone sono felici, esultano, si abbracciano: “Pochi momenti come questo belli,/a quanti l’odio consuma e l’amore,/è dato, sotto il cielo, di vedere” non sarà più. E allora, a che cosa servirebbe, senza simboli, senza poesia, senza sovversione, senza felicità, un campo in cui ventidue persone in calzoncini rincorrono un pallone?

sabato 26 maggio 2012

La vera bellezza


Ho trovato, su una bancarella, un aureo libretto dei tempi andati: un “Breviario di letteratura infantile”, di Lina Passarella, editrice La Scuola. L’anno era il 1944: annus horribilis, tra i tanti, per il nostro Paese e per il mondo intero. La Seconda guerra mondiale era in pieno svolgimento, tra battaglie, massacri, bombardamenti, sbarchi. L’Italia, occupata dalle truppe tedesche; le forze alleate avanzavano, le città si liberavano, avvenivano le stragi: Sant’Anna e Marzabotto, per tutte. Eppure, la signora Passarella scriveva dell’educazione dei bambini, e scriveva dei libri, e della bellezza. “La vera bellezza ha il tono dell’eternità. I libri belli adatti ai bambini e ai fanciulli sono belli per tutti, anche per gli adulti […]”. Proseguiva, con un ragionamento dalla struttura gentiliana, dicendo che la misura artistica, la precisione del linguaggio scientifico, la coerenza di orientamento spirituale di fronte ai problemi morali, sociali, politici, religiosi non erano che manifestazioni di onestà. Il filosofo Giovanni Gentile elaborò un sistema di pensiero, l’attualismo, che informò di sé in maniera rilevante la cultura italiana tra le due guerre mondiali. Ostinatamente fedele al fascismo, pagò con la vita, in quello stesso 1944, la sua adesione al regime, ucciso a Firenze da un comando gappista. Ma leggiamo ancora: “Ha una bellezza tutta sua e grande questo fluire della vita pratica nell’arte e dell’arte nella vita pratica”. Non conosco la storia personale ed intellettuale di Lina Passarella, né i suoi orientamenti politici. Trovo però singolarmente interessante che, in tempi procellosi, si perseguisse la strada dell’unitarietà di arte, etica, bellezza, vita pratica; di vita contemplativa e vita attiva. Una declinazione coerente del “cerchio magico” dell’attualismo gentiliano, scovata in un libretto acquistato su una bancarella. La cultura semina. La cultura dissemina se stessa.

sabato 19 maggio 2012

La filosofia declinabile


Si parla, spesso, di filosofia di vita. O di filosofia del corso delle cose. Una filosofia dell’esserci, della ragion pratica: e si giunge alla filosofia della cucina. O del gioco del calcio. Parlando in linea generale, è un bene, secondo me, che saperi grandi, alti e robusti siano declinabili anche negli aspetti della vita quotidiana. Solo che dovremmo rispettare, come in tutte le cose, il limite del buon gusto e dell’ironia, o autoironia, peraltro difficilmente definibile. Il grande scrittore e polemista austriaco Karl Kraus ebbe a scrivere di avere capito dove si fossero spostati i limiti del linguaggio, quando udì definire un cavallo, vincitore di gare, “geniale”. E così, abbiamo potuto leggere in svariate occasioni della “filosofia” di Mourinho: la filosofia del “zero tituli”. Anche se, per dire, sono fermamente convinto che, in cucina, si possa senz’altro esprimere una forma di filosofia, nel senso dell’apprendimento intellettuale, sensoriale e gustoso di un sapere, o un insieme di saperi, in cui l’elemento del sapere tecnico si combina con la capacità di manipolazione, ma anche di ragionamento e previsione. Un piatto si cucina con la mente, prima che con le mani. Esattamente come nel recitare una poesia, si può ripetere pedissequamente la ricetta contenuta nelle pagine di un libro, come elaborare varianti di intonazione ed interpretazione. Accade, quindi, che un filosofo rigoroso come Tullio Gregory abbia firmato la sezione “cucina filosofica” del Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, prendendo spunto, per ideare i menu, dai simboli della fortuna: la ruota, la sfera, la benda, le ali, il mare ondoso, in un profluvio di gusti e profumi, passando dal cibo della fortuna, a base di riso, alla ruota della fortuna, espressa dalle rotondità di rosette, tortelli e zampone, per giungere alle ali della fortuna, con oche, polli, galletti, faraone. Su tutto, la cornucopia, simbolo di abbondanza. In tempi di crisi, il piacere della cucina, fisico e intellettuale, è un gran guadagno.

domenica 13 maggio 2012

I frutti di Demetra


Una donna a cui viene rapita la creatura. È Demetra. Persefone, la figlia adorata, viene sottratta alla luce e alla madre dal dio degli inferi, Ade, che, per imprigionarla nel suo regno sotterraneo, le fa mangiare un melograno. Perché questo frutto? La simbologia è trasparente: il melograno lo si coglie. Cosa fa, Demetra? Toglie la fertilità alla Terra. La Terra diviene sterile. Immaginiamoci una Terra sterile. Anni fa (1983), un film, “The day after”, che i cinofili reputano di serie B, ma che influenzò moltissimo l’immaginario di una generazione, mostra gli effetti del dopo bomba atomica. È così che doveva presentarsi la Terra inaridita dal dolore di Demetra: grigia, opaca, polverosa, lunare senza la magia della Luna. Ma è potente anche l’immagine di Demetra che vaga per ogni dove, ululando, disperata, folle di dolore per la figlia. Lei, per la quale il poeta Callimaco scrisse: “Quando passa il canestro, dite, o donne:/Salve Demetra, molte volte salve,/generosa di cibo, ricca a staia”. Demetra ritrova Persefone, la figlia, e il responso finale è che la giovane donna dovrà trascorrere sei mesi con la madre e sei mesi con lo sposo. È, chiaramente, il ciclo delle stagioni. Ma è anche il riconoscimento del fatto che una donna non deve consegnarsi completamente all’ordine del maschio, ma può ancora stare nel discorso materno. “Salve Demetra, molte volte salve, generosa di cibo, ricca a staia. E come sono quattro le cavalle di chioma bianca che il canestro tírano, così la grande dea; molto potente, verrà portando bianca primavera e bianca estate e inoltre inverno e autunno e ci proteggerà da un anno all'altro”. Io credo che molti uomini compiano atti di violenza truce sulle donne, perché non sanno e non vogliono riconoscere quella potenza. La potenza della nascita, del dar vita, della primavera che”non bussa, ma entra sicura”: come scrisse un uomo, Fabrizio De André. “Salve, dea, conserva questa città in concordia e in opulenza. Porta tutti i prodotti della terra, ai buoi da' nutrimento, porta i frutti, porta la spiga, da' la mietitura, anche la pace nutri, perché mieta, colui che arò”.

sabato 28 aprile 2012

Maestro di verità


John R. Searle, pensatore che si occupa di filosofia del linguaggio e di filosofia della mente, sostiene che la realtà "naturale" è del tutto indipendente da ogni umana rappresentazione perché è una questione di particelle, descrivibile in toto con le leggi della chimica e della fisica. Il mondo è uno e tutto determinato da processi biofisici; poi però ci sono gli umani, che, grazie al linguaggio, creano e rappresentano gli atti sociali in base all’intenzionalità collettiva come “conseguenza naturale della nostra struttura biologica”. Così ne parla, con mirabile sintesi, Francesca Rigotti. È il cosiddetto “nuovo realismo”, che, come giustamente sottolinea Rigotti, mette a rischio il contributo fondamentale che le metafore portano alla nostra capacità cognitiva. Se ogni realtà è indipendente da ogni umana rappresentazione, per esempio, si perde il “di più” che la parola poetica è capace di dare sulla realtà stessa. “Una buona rinfresca l’intelletto”: lo diceva Ludwig Wittgenstein. Secondo il pensatore austriaco, le risposte ai nostri problemi ed alle nostre inquietudini intellettuali non possono venire soltanto da mosse e strategie teoriche, ma dal mutamento del nostro modo di vivere. Di qui, la particolare evidenza, ad esempio in Robert Musil, dell’elaborazione letteraria in termini di metafora delle strutture concettuali e teoriche più astratte. Quasi come se, per conoscere la verità, una buona metafora fosse davvero essenziale. La poesia, fosse essenziale. Io ne sono convinto. L’amore può essere descritto come un fatto di ossa, muscoli, nervi, circolazione sanguigna eccetera, ma cosa è l’amore, ce lo dice solo la poesia. Leggiamo questo brano di Marcel Detienne (« Les maitres de vérité dans la Grèce archaique ») : « Funzionario della sovranità o encomiante la nobiltà guerriera, il poeta è sempre un "Maestro di verità". la sua "Verità" è una verità assertiva; nulla la contesta, nulla la dimostra. "Verità" fondamentalmente diversa dalla nostra concezione tradizionale, aletheia non è l'accordo della proposizione e del suo oggetto, nemmeno l'accordo di un giudizio con altri giudizi; essa non si oppone alla "menzogna"; non vi è il "vero" di fronte al "falso". La sola opposizone significativa è quella tra aletheia e lete. A questo livello di pensiero, il poeta è veramente ispirato, se il suo verbo si fonda su un dono di veggenza, la parola tende a identificarsi con la "Verità"»

sabato 21 aprile 2012

Un esempio di bene comune


A Berlino, città d’Europa tra le più dense di storia e di cultura, nidificano 130 specie di uccelli e crescono 420 mila alberi. “Unter den Linden”, il viale dei tigli, è una delle strade più belle ed evocative della città: quando questa era sfregiata dal muro, i tigli stavano nella parte orientale. Attigua al viale c’è la Bebelplatz. Qui, il 10 maggio 1933, nell’allora “piazza dell’Opera”, i nazisti bruciarono, in un immane rogo, circa 25.000 libri ritenuti pericolosi. La distruzione è ricordata da un'opera di Micha Ullman: un pannello luminoso, inserito sulla superficie della strada, che lascia intravedere una camera piena di scaffali vuoti. Accanto, una targa con una citazione di Heinrich Heine, il grande poeta romantico, progressista, che aveva denunciato la “caserma prussiana”: «Quando i libri vengono bruciati, alla fine verranno bruciate anche le persone». Adesso sappiamo quanto queste parole fossero tragicamente premonitrici. Recentemente, nella stessa piazza – intitolata nel 1947 all’uomo politico socialdemocratico August Bebel – si è svolta la mostra “United Buddy Bears”: oltre 140 sculture a forma di orso, ognuna creata da un artista diverso, che si tengono per mano l'una accanto all'altra, a simbolo della tolleranza e della convivenza pacifica tra le culture e le religioni. La città cosmopolita, spregiudicata e colta degli anni prima del nazismo, la città che fu poi simbolo del potere hitleriano, devastata dalla guerra, il cui Reichstag, il Parlamento, ha oggi una cupola di vetro – trasparenza e luce –possiede un enorme spazio libero: l'ex-aeroporto Tempelhof, che è adesso un Volkspark (parco pubblico). Nel 1926, qui nacque la Lufthansa; nel 1936, venne costruito l’edificio forse, al tempo, più grande del mondo. 1,3 chilometri di saloni di granito in cui gestire il traffico aereo ed accogliere i viaggiatori nel Reich che si definiva millenario. Nel 2008, l’aeroporto viene chiuso. La vasta superficie all'aperto di 386 ettari e uno dei più grandi edifici del mondo, il tutto in una zona centrale, sono destinate ad un uso pubblico: diventano un bene comune. Non so: sono rimasto affascinato da questa cosa. Il vuoto di un tale spazio nel pieno della città. Il verde, le piste ciclabili, quelle per skateboard o per jogging; superfici per grigliate o per cani o per picnic. Lo spazio, insisto: lo spazio, per tutti. Gli ingressi aperti dall'alba al tramonto. Non so: mi sembra una bella metafora per il bene comune, per l’amministrazione pubblica, per il concetto filosofico e spaziale di apertura.

domenica 15 aprile 2012

Il labirinto

C’è un agire politico di matrice aristotelico- cristiana (l’agire politico è in vista del bene comune della città) e uno, definibile realistico-machiavellico (l’agire politico è autonomo dall’etica e chi governa non è giudicabile con le norme con cui si giudicano le persone comuni). Così scriveva Norberto Bobbio, importante filosofo della politica. A ciò faceva seguire il richiamo ad una azione politica condotta con rinnovato senso etico, affermando che “ il fondamento di una buona repubblica, prima ancora delle buone leggi, è la virtù dei cittadini”. Una virtù pubblica è la mitezza: è la “non violenza attiva” di Gandhi, la politica non violenta del mite, che rispetta l’altro, lo accetta per quel che è, lo aiuta a realizzare se stesso e gli riconosce i suoi diritti. In un passo della sua “Autobiografia” dedicato a «il problema della guerra e le vie della pace», Bobbio parla del labirinto “Chi entra in un labirinto sa che esiste una via d’uscita, ma non sa quale delle molte vie che gli si aprono innanzi di volta in volta vi conduca. Procede a tentoni. Quando trova una via bloccata torna indietro e ne prende un’altra. Talora la via che sembra più facile non è la più giusta; talora, quando crede di essere più vicino alla meta, ne è più lontano, e basta un passo falso per tornare al punto di partenza. Bisogna avere molta pazienza, non lasciarsi mai illudere dalle apparenze, fare, come si dice, un passo per volta, e di fronte ai bivi, quando non si è in grado di calcolare la ragione della scelta, ma si è costretti a rischiare, essere sempre pronti a tornare indietro”. È insomma necessario che “non ci si butti mai a capofitto nell’azione, che non si subisca passivamente la situazione, che si coordinino le azioni, che si facciano scelte ragionate, che ci si propongano, a titolo d’ipotesi, mete intermedie, salvo a correggere l’itinerario durante il percorso, ad adattare i mezzi al fine, a riconoscere le vie sbagliate e ad abbandonarle una volta riconosciute”. Note che il vostro commentatore ha voluto riprodurre integralmente, quasi un viatico ed una speranza per attraversare il labirinto della nostra vita quotidiana, pubblica e privata. “Come ho detto tante volte, la storia umana, tra salvezza e perdizione, è ambigua. Non sappiamo neppure se siamo noi i padroni del nostro destino”. Ma dobbiamo agire come se lo fossimo.

sabato 31 marzo 2012

La paura prende alle spalle

Ares, dio greco della guerra, dell’ira e della violenza, scendeva in battaglia affiancato dai figli Deimos (il terrore) e Phobos (la paura). La paura appartiene intimamente alla vita psichica umana: dà l’allarme immediato ad una situazione di pericolo, fa scattare difese, predispone alla trincea ed alla protezione, è fondamentale per sopravvivere. Ma può essere paralizzante. Se l’origine della ha carattere fondamentalmente corporeo e psicologico, le strategie per il suo controllo sono essenzialmente cognitive. Ogni epoca ha le sue paure. Gli antichi avevano terrore dei fenomeni naturali, per loro inspiegabili: dal tuono alla folgore, alle eruzioni dei vulcani. Nel Medioevo si temeva il contagio della peste, verso cui le persone si sentiva completamente esposta, priva di difese. Oggi invece abbiamo paure diverse: la bomba atomica, il terrorismo, le armi biologiche. Ci sono paure dettate dall’ignoto e altre, al contrario, dal fin troppo noto. Era la sera del 30 ottobre del 1938, la sera prima di Halloween, quando la stazione radiofonica statunitense della CBS decise di mandare in onda uno show speciale: un radiodramma, affidato all’attore Orson Welles. Ebbe così origine la più grande opera di manipolazione mediatica ad oggi realizzata, capace di gettare nel panico migliaia di americani provenienti da ogni strato sociale. La versione radiofonica di “La guerra dei mondi” di H. G. Wells convinse migliaia di cittadini che i marziani avevano iniziato l’invasione della Terra, e provocò scene di panico, ingorghi stradali, il default delle comunicazioni, una sorta di isteria collettiva. Era cominciata con: “Signore e signori, vogliate scusare per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News. Alle otto meno venti, ora centrale, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings, Chicago, Illinois, ha rilevato diverse esplosioni di gas incandescente che si sono succedute a intervalli regolari sul pianeta Marte. Lo spettroscopio indica che si tratta di idrogeno e che si sta avvicinando verso la terra a enorme velocità”. Il grande regista Steven Spielberg, molti anni dopo, ha diretto un film, basato sempre sul romanzo di Wells, in cui dallo spazio arrivano mostri distruttori e invasori, alieni terribili senza alcuna “umanità”. Niente a che vedere con il dolce ET o con gli esseri, appena intravisti, di “Incontro ravvicinati del terzo tipo”. Parrebbe che anche Spielberg si sia fatto catturare dalla grande paura dell’ignoto che ha casa nel nostro mondo, al di là di una realtà in cui ormai sono pochi i fenomeni naturali sconosciuti, ma dove altre paure turbano i sogni e la veglia. Perché la paura, spesso, prende alle spalle.

Flora e Fiori

La dea Flora è rappresentata, in una festa di grazia e di bellezza, da Sandro Botticelli nel suo splendido dipinto “La primavera”. Un omaggio alla bellezza, condotto con grande maestria, con cultura alchemica e simbolica, un impianto metaforico eccezionale e una poesia insuperata. Flora, questa dea lucente, era una antica divinità italica che presiedeva alla fioritura: la bellezza del fiore, ma anche la promessa di un buon raccolto. La dea divenne, quindi, simbolo della primavera e protettrice, oltre che dell’agricoltura e dell’apicultura, della giovinezza e delle donne che desideravano un figlio. Dal 28 aprile al 3 maggio, nell’antica Roma, in un tripudio di fiori, si celebravano le Floralia, feste solenni, in onore della “ministra di Cerere”, dea delle messi. Il rapporto tra i fiori ed il mito è forte: Aiace viene trasformato in un giacinto, e Giacinto era il nome di un giovinetto, amato da Apollo e da Zefiro, ucciso per gelosia e trasformato da Apollo nel fiore omonimo. Clizia ama in modo disperato lo stesso Apollo, fino a lasciarsi consumare d’amore, e questi la trasforma in un girasole. Ma anche nel mondo cristiano, il linguaggio dei fiori è molto presente: le “infiorate” erano frequenti, durante le feste comandate e le pratiche devozionali, e uno degli epiteti della Vergine Maria è “rosa mistica”. La simbologia della rosa percorre, attraverso secoli, il pensiero teologico e mistico. Il Fiore de’ Fiori , un manoscritto alchemico, fu un’opera importantissima nel Medioevo. Ma torniamo a Maria, per leggere insieme parte della bellissima preghiera che Dante Alighieri, nella Commedia, fa proferire a San Bernardo […] Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore […]. Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ ali. La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate.

sabato 17 marzo 2012

I diritti

Chi è, il cittadino? Il concetto, quasi sempre declinato insieme a quello di sovranità, è stato inteso storicamente come attribuzione esclusiva di diritti opponibili a chiunque abbia una diversa nazionalità. Accanto a questa definizione, tuttavia, vi è un'interpretazione parallela per la quale ogni cittadino è titolare di diritti universali. È il cosiddetto modello societario: la cittadinanza è la partecipazione dell'individuo al destino della comunità in cui vive. È evidente come il tema sia molto urgente oggi, visto l’interscambio tra i popoli sempre più accelerato. Ovviamente, i diritti di cittadinanza esprimono una serie di libertà che evolvono nel tempo: la nozione non può, quindi, essere statica. Libertà di autodeterminazione, libertà di parola, diritto alla sicurezza personale, libertà di culto, libertà di stampa e di informazione, diritto di sciopero, diritto di manifestazione pubblica; diritto al voto, diritto di elezione, diritto di associazione partitica; diritto di proprietà privata, e anche, il libero mercato. Poi, solidarietà sociale, diritto all’assistenza sanitaria, pari opportunità di lavoro, diritto all'istruzione. Fino a giungere al diritto di decidere sul proprio corpo: ad esempio, la libertà dell'orientamento sessuale e il diritto di aborto. La materia è molto ampia. È titolare dei diritti il cittadino sovrano, non suddito: una conquista della Rivoluzione francese e, prima ancora, di quella inglese e di quella americana. È una conquista fondamentale, da cui non possiamo tornare indietro, se vogliamo che la convivenza civile raggiunga ulteriori traguardi. Ma non possiamo pensare che la storia vada sempre avanti. Dobbiamo affrancarci dall’idea che la storia sia un progresso ininterrotto dell’umanità da uno stato di soggezione. Cambia il panorama della storia, cambiano anche i diritti. La domanda da porre è quanto il mutamento contribuisca a far crescere cittadinanza piena e responsabile, o quanto, magari in forme oblique, possa riproporre il modello di sudditanza.

sabato 10 marzo 2012

Luci e ombre del progresso

Il mito del progresso è tra i più potenti che la storia del’umanità abbia prodotto. Progresso illuminismo razionalità, contrapposti ad oscurantismo sanfedismo sonno della ragione. La fede acritica nel progresso può essere, appunto, una fede. Accade quando il progresso, invece che un sistema dinamico di relazioni, scoperte, inclinazioni, discussioni, diviene un feticcio buono per giustificare o avvalorare decisori e decisioni senza contestualizzare gli uni e le altre. Una cosa che è progresso in un’epoca può essere oscurantismo in un’altra. La rivoluzione industriale fu senz’altro un momento di progresso dell’umanità; le devastazioni sociali che produsse, l’inquinamento, la depredazione delle risorse naturali ebbero come contropartita il poter gettare le basi di un sistema di vita più egualitario e garantito. Oggi, non è più così. Oggi progresso significa non sfruttamento ma uso oculato, non crescita ma, addirittura, decrescita, non dominio sulla natura ma rispetto e ascolto. Scriveva Nietzsche: “ Si chiami pure “ civilizzazione “ o “ umanizzazione “ o “ progresso “ ciò in cui oggi viene cercato il tratto distintivo degli Europei; o lo si chiami semplicemente senza lode e biasimo, con una formula politica, il movimento democratico dell’ Europa; dietro tutte le ragioni morali e politiche ostentate, a cui si rimanda con tali formule, si compie un immenso processo fisiologico che si fa sempre più fluido – il processo di un’ omogeneizzazione degli Europei, il loro crescere distaccato dalle condizioni nelle quali sorgono razze legate al clima e alle classi, la loro crescente indipendenza da ogni milieu determinato che vorrebbe imprimersi per secoli sempre con le stesse esigenze nell’ anima e nel corpo – dunque la lenta ascesa di un tipo umano essenzialmente sovranazionale e nomade che, detto in termini fisiologici, possiede, come suo contrassegno caratteristico, un massimo di arte e forza di adattamento […]”. Adattamento e nomadismo, piuttosto che tendenza identitaria: ecco i segni del progresso, secondo Nietzsche. Il grande filosofo tedesco Ernst Bloch, alcuni decenni dopo, scriverà: “Il concetto di progresso non sopporta ‘cicli culturali’ nei quali il tempo è inchiodato allo spazio in modo reazionario, ma ha bisogno, in luogo di unilinearità, di un multiversum ampio, elastico, pienamente dinamico, un continuo e spesso intrecciato contrappunto delle voci della storia”. Il segno più fecondo dell’idea di progresso, oggi, è forse in questa capacità di contrappunto e di dinamicità. Progresso, insomma, versus pre-giudizio.

domenica 4 marzo 2012

Apollineo e Dionisiaco

Il professor Tullio Gregory, in un recente articolo, lamenta giustamente il fatto che la riforma del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) abbia ulteriormente marginalizzato il settore delle scienze umane: dalla filosofia all’economia, alla sociologia alla storia dell’arte, alla linguistica. Si tratta di un non nuovo “declassamento” delle scienze umane rispetto alle scienze “dure”: la fisica, la chimica, l’ingegneria, la geologia, e via dicendo. Un pregiudizio? Certamente, e, come tutti i pregiudizi, tanto self-evident, quanto difficile da sfatare. Si tratta dell’idea che le scienze umane siano poco adatte a confrontarsi con la contemporaneità. Vanno in questa direzione anche gli appelli che, tutti gli anni, si susseguono perché ragazzi e ragazze si iscrivano a facoltà “scientifiche” invece che rivolgersi ad una scelta umanistica. Posto che alcune discipline, come l’economia, sono difficilmente posizionabili nell’uno o nell’altro versante, mi domando quale miopia sia sottesa a questo pregiudizio. Non c’è di meglio, credo, di un laureato in filosofia per occuparsi, in una azienda, della cosiddetta “risorsa umana”, termine brutto per dire le persone che ci lavorano. L’abitudine alla flessibilità mentale e la capacità di relativizzare saranno di grande aiuto per la mediazione, il giudizio, la scelta. Non c’è niente di più potente ed efficace del mito per narrare e comprendere le grandi questioni di oggi. Gli archetipi culturali della Grecia antica (e ci sanguina il cuore, a vedere così in difficoltà, oggi, quel Paese) sono la chiave per capire tanti drammi e tipi umani, da chi uccide per amore, a chi è accecato da invidia e cupidigia, a chi si illude di potenza e precipita poi nell’errore e nel disonore. Affrontiamo meglio la crisi di oggi, se pensiamo ai grandi dilemmi, ai grandi sacrifici del mito: il fegato di Prometeo divorato da un’aquila, perché ha donato il fuoco agli uomini; l’odio implacabile di una donna offesa nel matrimonio e nell’amor materno, e Clitemnestra fa trucidare il tronfio marito Agamennone la sfida al dio punita come tracotanza, e Apollo, impassibile, fa scorticare vivo Marsia. Oggi ci sentiamo tutti un po’feriti da rapaci che volteggiano senza tregua, mentre noi umani non sappiamo come ripararci; traditi, e certo non possiamo reagire con la violenza di Clitemnestra; scorticati nella speranza, nell’attesa, nella fiducia. Leggiamo queste pagine: saremo meno smarriti.

sabato 25 febbraio 2012

Muri e mura

La musica rock e pop è stata una componente importante della cultura del Novecento. Non solo a livello artistico: vi sono transitate questioni e dilemmi del secolo. Alcuni di questi temi rimangono ancora oggi, con tutta la loro pregnanza. Pensiamo al tema dei muri e dei confini. La cruda realtà della globalizzazione (attenzione! Non è un giudizio di merito: è una constatazione) ci mette di fronte ad un mondo virtualmente senza confini, e lo spaesamento è grande, il timore si amplia, fino al punto di moltiplicare quei muri concreti che, seppur limitati, ci fanno illudere di poter porre un limite alle “invasioni barbariche” di cui forse ognuno ha paura. Ma attenzione: ognuno ha il suo barbaro, che può essere lo straniero malvisto, come colui che ci “rapina” un posto macchina in un parcheggio, o chi riceve una promozione sul lavoro a cui aspiravamo. La lista sarebbe lunga. Meglio tornare ai muri. I Pink Floyd, una grande band degli anni ’70 dello scorso secolo, compose – era il 1979 – un album da titolo “The Wall”, il muro. Solitudine, massificazione: possiamo sfuggire a questo destino iscritto nella modernità, diceva quest’opera, abbattendo i muri. Il muro eretto dentro ognuno di noi. Diversi anni più tardi, David Bowie canterà, sotto il muro di Berlino, “Heroes”: «We can be heroes, just for one day». Eroi, per abbattere i muri, non per edificarli. Narra il mito greco che le antiche mura di Tebe si spostassero al suono della lira di Anfione, e che le mura di Troia fossero addirittura opera del dio Poseidone. Ma tutte, tutte sono crollate, o sono state violate, o, semplicemente, non sono più servite allo scopo. Così come il Vallo di Adriano o la Grande Muraglia Cinese, piuttosto che la linea Maginot o la linea Gotica. Passano i secoli, la storia dimostra che muri e mura crollano o vengono abbandonati; eppure, si continuano a costruire recinzioni, gabbie, barriere. Addirittura un quartiere di Parigi, Villa Montmorency, è protetto da barriere e sistemi di sicurezza video sorvegliati. Chissà che, un giorno, anche queste nuove mura – analoghe a quelle che sorgono dentro molte coscienze - non si muovano al suono della lira di un novello Anfione.

venerdì 17 febbraio 2012

Il libro non è affatto un lusso

Lucio Lombardo Radice, uno studioso ingiustamente poco conosciuto. Carlo Bernardini ha detto di lui che era “onnigrafo”: non si lasciava sfuggire nessuna occasione per intervenire, interloquire, esprimere la propria opinione. Vivace, attento, sempre presente. Già anziano, era andato a parlare in una scuola elementare, e un bambino aveva detto che era “vispo come un capretto”: un’immagine stupenda. Mi è venuto in mente, perché uno dei temi di cui si parla in questo oggi difficile, melanconico, ridotto all’osso, è la scuola. L’istruzione. Il sapere. Non che siano sinonimi: tutt’altro. Ma vediamo come li declinava Lombardo Radice (che era nato nel 1916). Fu matematico, pedagogista, politico. Fu partigiano, non solo durante la lotta di Liberazione, ma nell’affrontare i temi politici, etici, culturali del suo tempo. Leggiamo questo brano: “La cultura non gode buona fama nel linguaggio corrente (erano i primi anni ’60 del Novecento… doveva ancora venire la frase per cui con la cultura non ci si fa un panino, ndr); la scuola, poi, non ne parliamo. Quando qualcosa ci riesce incomprensibile, diciamo che è <<algebra>>; definiamo, con malcelato disprezzo, <<poesia>> le aspirazioni e le azioni che non procacciano utilità e ricchezza; sosteniamo, soprattutto se andavamo male a scuola, che «i primi della classe sono gli ultimi nella vita». Un quadro senza vita e uno scritto senza anima sono «compitini»; tutto ciò che è inutile e tedioso è «scolastico», tutto ciò che è lontano dalla vita è «libresco». Protesto contro i luoghi comuni d’ogni giorno, della lingua d’ogni giorno; protesto soprattutto contro la svalutazione del libro! Il libro non è affatto un lusso, è una necessità nella vita d’ogni uomo e d’ogni donna che vogliano essere davvero uomini, cioè vite che ereditano, e tramandano ad altre vite il patrimonio della civiltà”. Una rivendicazione sapiente e semplice di una eredità non mercantesca, non finanziaria, legata alla cultura, a ciò che – come dice la radice – ci coltiva e ci fa crescere. Ancora un brano, sulla scuola pubblica: “vorrei […] che la scuola pubblica divenisse una scuola di educazione positiva ai valori comuni, a quei valori di giustizia, di uguaglianza, di disinteresse, di ripugnanza a ogni privilegio, di democrazia reale, di progresso, di ragione aperta che sono il «credo comune» della stragrande maggioranza dei cittadini italiani”. Lo viviamo come un augurio ed una prospettiva, che caldeggiamo apertamente.

venerdì 10 febbraio 2012

"Sostenere la comunità di vita"

La “teologia della liberazione” è una corrente di pensiero, sviluppatasi all’interno del cattolicesimo di ambiente latinoamericano, molto attenta ai temi sociali e politici presenti nel messaggio cristiano. I suoi esponenti, sin dalla fine degli anni ’60, si sono schierati al fianco dei poveri, degli umili, dei diseredati, non soltanto dal punto di vista della carità, dell’aiuto e della solidarietà, ma anche sostenendone le rivendicazioni a carattere sociale e politico. Il nome deriva dal libro omonimo del sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez, Teologia della liberazione, uscito nel 1971. La Chiesa ufficiale non ha mai gradito le tesi espresse da questi teologi, frati, sacerdoti, sino alla opposizione ferma di papa Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Joseph Ratzinger. I principali esponenti furono allontanati progressivamente dai luoghi decisionali della Chiesa, e qualcuno decise una rottura radicale. È il caso del francescano Leonardo Boff, che aveva diviso il suo impegno per anni tra l’insegnamento (come professore di teologia, filosofia, spiritualità ed ecologia) e la condivisione dell’esistenza degli ultimi e dei diseredati. Attento alle persone ed alla Madre Terra, Boff è uno studioso dei temi della sostenibilità ambientale. A questo proposito, ha scritto una sorta di decalogo, di cui riportiamo ampi stralci. Il fascino della sua visione olistica sta anche nella semplice grande forza dei concetti. “Sostenere tutte le condizioni necessarie per il sorgere di nuovi esseri: questi esistono soltanto a partire da un congiungimento di energie, di elementi fisicochimici e informazionali, che, combinati tra loro, danno origine a tutto. Sostenere tutti gli esseri: si tratta di superare radicalmente l’antropocentrismo. Tutti gli esseri costituiscono soggetti emergenti del processo evolutivo e godono di valore intrinseco, indipendente dall’uso umano. Sostenere soprattutto la Terra viva: la Terra […] stessa è viva, si autoregola, si rigenera e evolve. Sostenere anche la comunità di vita: non esiste l’ambiente come qualcosa di secondario e periferico. Noi non esistiamo, ma coesistiamo e siamo tutti interdipendenti. Sostenere la vita umana: siamo un asse singolare nella rete della vita […] Avvertiamo di essere chiamati ad aver cura della Madre Terra, a garantire la continuità della civiltà e a vigilare anche sulla nostra capacità distruttiva. Sostenere la continuità del processo evolutivo: gli esseri sono conservati e sostenuti dall’Energia di fondo o Fonte originaria di ogni essere. Sostenere la soddisfazione dei bisogni umani: lo facciamo attraverso l’uso razionale e premuroso dei beni e servizi che il cosmo e la Terra ci offrono senza i quali potremmo soccombere. Sostenere la nostra generazione e quelle che verranno dopo la nostra: la Terra è sufficiente per ogni generazione, purché queste stabiliscano una relazione di energia e di cooperazione con lei e distribuiscano beni e servizi in modo equo. L’uso di questi beni deve basarsi sulla solidarietà generazionale. Le future generazioni hanno il diritto di ereditare una Terra e una natura in buono stato”.

venerdì 3 febbraio 2012

Un pensiero femminile

Sono sempre stato attento alla capacità femminile di pensiero e di riflessione. Ricordo una mia insegnante del Liceo, storia e filosofia. Donna di grande autorevolezza, ma capace di affetto e di umanità, ci conduceva entro le sue materie con lucidità, passione, e un vigore intellettuale che ho apprezzato in pieno solo in seguito. Anche per questo cerco di seguire la produzione femminile e femminista di pensiero, che a volte ci dona testi preziosi, come questo di Ina Praetorius, “Penelope a Davos. Idee femministe per un’economia globale”, tradotto in italiano nei “Quaderni di Via Dogana”. Praetorius è una dottora in teologia protestante e saggista tedesca. Definisce questi suoi scritti “tentativi di pensare in modo postpatriarcale”, partendo da una analisi: la crisi globale, lo strapotere della finanza e dell’economia di carta, la distruzione dei legami sociali ha molto a che fare con il dominio patriarcale e la soggezione millenaria delle donne, che ha provocato, tra l’altro, la loro assenza dalla vita pubblica. L’autrice conia un termine, la “Daseinkompetenz”, cioè la competenza dell’esserci, che diventa una cultura ed una pratica, di segno femminile, capace di disegnare un mondo “altro” rispetto a quello, per sintetizzare, dell’economia immateriale, ed è un mondo che già c’è, è in presenza. È il mondo della cura: cura degli aspetti relazionali, dei bisogni materiali ed affettivi, del “mettere al mondo”. Grandi competenze femminili, e un grande pensiero, tra gli altri: il falso mito dell’indipendenza, il fatto che la libertà si possa declinare come indipendenza. Tutti e tutte dipendiamo, in realtà: a partire dalla madre che ci ha partorito, dai legami sociali ed affettivi, dall’acqua dall’aria dalla terra che ci nutre. È vero, care lettrici e lettori: il modo prometeico di vedere la vita, la “Weltanschaung”, la visione del mondo per cui l’uomo domina la natura e si erge solo a lottare contro le difficoltà, ci ha fatto dimenticare il senso del limite, consumare in modo dissennato le risorse, distruggere l’ambiente. Essere partoriti, dice Praetorius, significa che veniamo da una “matrice”, dal grembo materno: un involucro nutriente, che lasciamo, ma solo per entrare in una rete di relazioni e di legami, per cui, scrive l’autrice, “permaniamo all’interno della trama matrice-mondo”. Non si può sopravvivere senza aria, senza acqua, senza cibo, ma neppure senza morale, senza lingua, senza amore. Concludo: se la crisi consentirà un maggiore ascolto di voci come questa, non ne saranno venute solo disgrazie.

domenica 29 gennaio 2012

Una paziente e criminale precisione

Credo che celebrare il Giorno della Memoria (ricorrenza stabilita dalla legge per il 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche, nel 1945) debba farci ricordare i milioni di vittime incolpevoli, destinate ad una fine crudele, perché ciò che erano (ebrei, ma non solo: sinti e rom, comunisti, testimoni di Geova, omosessuali, disabili, dissidenti tedeschi e pentecostali) non trovava spazio nel mondo immaginato da nazisti e fascisti, ma anche riflettere, sempre. Come fu possibile? La deportazione, i campi, le camere a gas, i forni crematori, la pianificazione a tavolino dello sterminio. Etty Hillesum, luminosa figura di donna e di intellettuale, uccisa ad Auschwitz, si chiedeva: “Ma forse possediamo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante”. Le sue parole, lo stupore, quasi, che ne deriva, ci parlano ancora oggi. Come poté accadere? Germania ed Italia, passate attraverso il fuoco della Grande guerra, che devastò terre e coscienze, erano comunque paesi in cui la pratica e le idee dei valori umani, della solidarietà, del rispetto avevano avuto larga cittadinanza. Quindi, ci chiediamo: non ci furono anticorpi per lo sviluppo di un virus, che evidentemente allignava dentro il corpo sociale di quei Paesi, e che esplose negli anni Venti e Trenta del Novecento? E oggi, gli anticorpi esisterebbero? Non c’è organo, direbbe Etty Hillesum, che possa spiegare come, nel giro di pochi anni, si sia giunti ad un punto in cui persone che ognuno poteva conoscere da tempo, con cui andava a scuola o scambiava un saluto sulle scale di casa, o in un negozio, di cui era cliente, o paziente, o collega, o amico, o alunno, fossero private di tutti i diritti, imprigionate, deportate, fatte sparire. Certo, c’era un forte antisemitismo di origine cattolica e luterana. Certo, nel corso dell’Ottocento una marea infame di libri e libelli aveva creato il mito del giudeo nemico della civiltà. Ma basta a spiegare, questo? In realtà, tutto, o quasi, si giocò sulla costante deprivazione dei diritti, condotta passo per passo. “Una paziente e criminale precisione” (Molesini), in Germania e in Italia. Gli ebrei furono, lentamente ed efficacemente, isolati e separati dal corpo sociale. Sparirono piano piano, dagli studi medici, dai negozi, dalle scuole, dagli uffici. Fu un percorso di mitridatizzazione sociale. Non più uomini, donne e bambini con la loro vita “normale”, ma oggetti di operazioni burocratiche. E, rispetto ad un’operazione burocratica, si avverte minore responsabilità, ci si sente meno coinvolti. Con le leggi razziali, si tagliarono loro le reti di relazioni concrete, si espulsero dai luoghi, fisici e simbolici, dove si fa socialità, dove ci si incontra, dove ci si vede; la propaganda martellò su un “tipo ebraico”, da demonizzare, da temere: l’ebreo nemico, avido, menzognero. Questo “tipo” sostituì, nell’immaginario collettivo, i concreti uomini, donne e bambini ebrei, con cui ognuno aveva avuto a che fare: semplicemente, non li si vedeva più. Non lavoravano, non stavano nei negozi, non andavano a scuola: non esistevano più. Concludo un discorso che meriterebbe pagine e pagine, per dire che, ancora oggi, tutte le volte che si lede un diritto, che si toglie cittadinanza, che si amplia la distanza e si crea frattura tra esseri umani, che si sottrae qualcuno agli occhi degli altri, Auschwitz è ancora un rischio.

sabato 21 gennaio 2012

E luce fu

La luce sarà sempre di più vettore di intelligenza diffusa. È questo l’assunto che sta alla base dei progetti di città moderna. Una città interconnessa e integrata, con ogni genere di informazioni – il vero cibo dell’anima contemporanea – che viaggiano con la luce. Sono le cosiddette “smart cities”, fatte di agorà digitali, connessioni hi-tech, alimentate da pannelli solari, votate al risparmio energetico ed alla riduzione, quanto più possibile, dell’impronta ecologica. La “città intelligente” associa le tematiche dell’efficienza energetica e della sostenibilità, anche sociale. Centoventi milioni di punti luce pubblici, in tutta Europa; undici milioni in Italia. Possiamo vedere, dalle foto fatte dallo spazio, quanto la luce, come creazione umana, abbia ormai trasformato la percezione stessa del mondo. Teia era il nome che, nella mitologia greca preclassica, veniva dato ad una dea, anzi “la” dea per eccellenza, una Titanide che era madre di Helios, il dio del sole, Selene, la dea della luna, ed Eos, dea dell’aurora. Scrive il poeta Pindaro: “Madre del sole, Teia dai molteplici nomi, con la tua benedizione gli uomini onorano l'oro come elemento più prezioso di qualsiasi altro; ed attraverso il suo valore tu li accordi, o regina, le navi combattenti sul mare e le squadre di cavalli ammaestrati nelle gare di volteggio diventano meraviglie” . La luce quindi ha matrice femminile. Abbiamo già visto che, nel percorso verso la grande cultura della Grecia classica, la matrice femminile sia stata messa in ombra, così come la matrilinearità, a favore del principio maschile, culminante nella dea Athena, nata per partenogenesi dalla testa del padre Zeus. Dio della luce sarà allora Febo Apollo: Febo, Phoibos, colui che rifulge. Leggiamo un brano di Euripide: “Sfolgora il carro del Sole, fiammeggia sul mondo: dall'incendio del cielo gli astri cercano scampo nella sacra notte”. La luce dà vita, la luce acceca: Zeus sfolgora e uccide Semèle, colei che portava in grembo il futuro dio Dioniso, che diviene immortale grazie al fuoco della luce divina. La luce ci dà vita. Si dice: il lume dell’intelletto. “Fiat lux”: è la Bibbia, nel libro della “Genesi”. “Dio disse sia fatta la luce e la luce fu". Dopo cielo e terra (“La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso”), Dio crea la luce. E inizia la vita.

sabato 14 gennaio 2012

Frontiera identità comunità

Se la frontiera è sempre una entità mobile e mutevole, ciò vale tanto più per l'età contemporanea, in cui il limite arretra continuamente e continuamente ridefinisce identità, portando alla luce la funzione culturale del confine, culturale in senso antropologico. Una ridefinizione che corre parallela alla costituzione di entità politiche o economiche sovranazionali, che le contraddice e che si ridisegna sempre di più fuori dalla geopolitica. In questa moderna accezione, la frontiera non è più un territorio da attraversare per andare aldilà, per spostare e arretrare il confine fra noto e ignoto. Ora frontiera sta diventando una barriera che protegge gli inclusi da quanto proviene dall'esterno. Ma le nuove frontiere, proprio perché sempre più legate alla nozione di comunità, non sono più visibili, non sono più una linea tracciata per terra, sono sempre più difficilmente attraversabili, se non con gravi costi: Parigi e i quartieri dormitorio della sua periferia sono sempre più distanti e inoltrepassabili, inconciliabili. Così come le frontiere etniche separano popolazioni di uno stesso spazio e di uno stesso mondo. Ciò accade in particolare dove qualcosa (una guerra, la scomparsa delle demarcazioni geopolitiche) rompe la continuità di una comunità che, nel suo formarsi, attraverso gli anni, ha dovuto definire, anche inventandosi, il sé e l'altro (il miraggio titoino e già iugoslavo e austroungarico della convivenza, il melting pot americano); rompendosi la comunità, forme di identità preesistenti, o inedite forme comunitarie (l'identità religiosa nei Balcani, l'orgoglio etnico negli Usa) emergono o riemergono dal passato. Geograficamente la frontiera moderna non è più rilevabile, mentre lo è sempre di più sul piano mitico. Scrive Fabio Natali: “Occupare uno spazio significa distinguere ciò che è abitato da ciò che non lo è […] fondando l’ordine a partire dal caos. In altre parole abitare non significa solo creare luoghi, ma anche non-luoghi, spazi altri. Il delimitare - atto di fondazione del luogo e dunque dell’abitare - implica l’istituzione di una dualità, qualunque essa sia - interno- esterno, ordine-disordine, limitatoillimitato, luogo-spazio, identità-alterità - ovvero significa concepire l’esistenza non solo del sé ma anche di qualcosa di altro-da-sé, un qualcosa certamente più incerto,sfumato, indeterminato, difficilmente qualificabile, ma altrettanto “reale””. La casa, in greco oikos, da cui “economia”. La crisi economica ci insegnerà a pensare, tra le altre cose, un altro modello di “casa”?

venerdì 6 gennaio 2012

L’Italia si è desta? Prima di tutto un augurio

Si è concluso un anno di festeggiamenti per il 150° dell’Unità, anni difficili per mettere insieme linguaggi e culture diverse L’Italia si è desta? Prima di tutto un augurio.

di Agopoli

Abiamo ospitato, nel corso 
dell’anno che si è chiuso, 
una serie di interventi legati 
al tema dei 150 anni dell’Unità 
d‘Italia, di carattere storico, 
politico, culturale, e anche culinario 
(il cibo, è noto, fa parte di quella che si 
chiama cultura materiale). Ha detto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che mai avrebbe sperato in un fiorire di iniziative, incontri, discussioni, celebrazioni come si è verificato nel corso dell’anno. Vuoi per un disincanto tutto italiano («O Franza o Spagna, purché se magna»: una frase che cita già Francesco Guicciardini, e siamo agli inizi del 1500!), o per il timore che certa propaganda anti italiana, localistica, inneggiante alla frammentazione ed al “particulare” potesse avere la meglio. Non è stato così. Per fortuna. È uscito da poco tempo un libro del Presidente, dal titolo «Una e indivisibile» (per i tipi della casa editrice Rizzoli). Leggiamone qualche brano: «Abbiamo insistito tanto, e con pieno fondamento, su quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto». Non sono parole di circostanza. Se qualcosa hanno mostrato le tante celebrazioni, dalle più importanti delle grandi città, a quelle realizzate in piccoli paesi, da parte di associazioni di volontariato, magari con gli edifici pubblici impavesati con il tricolore, è stato proprio questo: la profondità delle radici del nostro stare insieme come nazione, come Italia unita. Si narra che, dopo l’Unità, Massimo D’Azeglio, che ne era stato uno dei protagonisti, abbia pronunciato una frase, rimasta celebre: «Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli Italiani». Beh, magari non è vero, ma è vera: perdonate il gioco di parole. Si dovettero veramente fare gli italiani, così diversi tra di loro, per lingua, abitudini, cucina. Ci piace ricordare un episodio del «Gattopardo», romanzo celeberrimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, un capolavoro uscito postumo nel 1958 (e dobbiamo la sua pubblicazione al grande Giorgio Bassani ed alla casa editrice Feltrinelli). Nel libro, dopo l’Unità, un dignitario piemontese, il cavaliere Chevalley, offre a don Fabrizio, il principe di Salina, la carica di senatore del Regno (che il principe rifiuta). L’autore è maestro nel dipingere l’arrivo di Chevalley dal Piemonte alla Sicilia: il viaggio, lunghissimo, il clima del tutto diverso, la cucina, che lo scombussola, la parlata incomprensibile, alcuni modi di comportarsi che non capisce. Il cavaliere ne è terrorizzato, e il figlio del principe, nell’accoglierlo, con sagacia e un pizzico di cattiveria esaspera i toni, per spaventare ancora più l’ospite che viene da lontano. Ma Chevalley si ricrederà: troverà cortesia degna di sovrani, educazione perfetta e un grande senso di ospitalità. L’episodio è sintomatico della grande distanza che c’era tra italiani ed italiani: davvero, abbiamo fatto passi da gigante, in questi 150 anni. Allora, tutto bene? No. Ma la strada è quella giusta. «Una e indivisibile»: sono parole della nostra Costituzione per definire la Repubblica. Il libro del Presidente ripercorre il lavoro diplomatico ed istituzionale di Cavour, lo slancio eroico e perfino mitico suscitato da Garibaldi, la partecipazione attiva di molta parte della società civile, del Sud, del Centro e del Nord, al processo di unità. Pochi fatti storici hanno suscitato un pari fervore, un pari entusiasmo: certamente, la Resistenza al nazifascismo è uno di questi. Sono momenti in cui un popolo prende nelle proprie mani il proprio destino. Si costruì (pensate) una lingua. Al momento dell’Unità, mancava una lingua comune alla conversazione: solo una minoranza era in grado di parlare italiano, tutti gli altri erano confinati nell’ uso del dialetto. Ma avvennero fenomeni importantissimi. Nel 1859, con legge voluta dal ministro dell’istruzione dell’ancora Regno di Sardegna Gabrio Casati, per la prima volta la scuola elementare divenne ovunque obbligatoria e gratuita. Questa scelta si rivelò di grande importanza, pur con i limiti derivanti dalle gravi diseguaglianze economiche e sociali. In queste scuole si insegnò l’Italia e l’italiano (ricordate il «Cuore» di Edmondo De Amicis, del 1886, libro obbligatorio per tante generazioni? Derossi che, a occhi chiusi, legge la carta d’Italia e ne elenca le bellezze… un libro retorico? Forse. Ma leggiamo questa breve citazione, e valutiamo se certi insegnamenti non sarebbero ancora da impartire: «Tutte le volte che incontri un vecchio cadente, un povero, una donna con un bimbo in braccio, uno storpio con le stampelle, un uomo curvo sotto un carico, una famiglia vestita a lutto, cedi loro il passo con rispetto: noi dobbiamo rispettare la vecchiaia, la miseria, l’amor materno, l’infermità, la fatica, la morte»). Secondo lo studioso Tullio De Mauro, l’unificazione linguistica si costruì con l’azione unificante della burocrazia e dell’ esercito, della stampa periodica e quotidiana, degli effetti demografici prodotti, ad esempio, dai fenomeni migratori interni e dall’aggregazione attorno a poli urbani. E poi, Alessandro Manzoni, con «I Promessi sposi», la grande opera che rinnova in profondità il linguaggio della saggistica e del romanzo, avvicinando lo scritto al parlato. Ci volle un nuovo inno, quel «Fratelli d’Italia», scritto nell'autunno del 1847 dall'allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli, musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro. Mameli morirà, due anni dopo, nella difesa della Repubblica romana. Novaro si dedicò alla causa dell’unità, musicando molti canti patriottici ed organizzando varie raccolte di fondi per finanziare e sostenere le imprese di Garibaldi. Pensate: fondò a Genova, tra il 1864 ed il 1865, una «Scuola Corale Popolare», ad accesso gratuito. Morì povero, nel 1885. Ma leggiamo ancora il Presidente Napolitano: «Il ruolo del Mezzogiorno nel movimento che si propose quell’obbiettivo e che riuscì a conseguirlo, la collocazione del Mezzogiorno nel nuovo Stato unitario, quale ebbe allora a definirsi, e la grande questione che per esso il Mezzogiorno rappresentò nel lungo percorso successivo, fino ai giorni nostri, costituiscono una componente decisiva della memoria e riflessione storica» e dell’esame di coscienza collettivo, vorrei dire «che vogliamo e dobbiamo suscitare». Il Mezzogiorno d’Italia ebbe un grande ruolo nel processo di Unità. Vorremmo ricordare, qui, l’episodio proto risorgimentale della Repubblica Napoletana del 1799. Con la restaurazione borbonica, vennero condannati a morte, alla prigionia o all’esilio grandi personaggi come Vincenzo Cuoco, Eleonora Fonseca Pimentel, Luisa Sanfelice, Pasquale Baffi, Vincenzo Russo e molti altri. Una classe intellettuale e borghese che fu falcidiata, e che avrebbe potuto dare un ulteriore, grande apporto alla vita politica e culturale del Mezzogiorno. Le donne, in particolare, ricevettero un trattamento orrendo e osceno. Ancora il Presidente, per un richiamo molto chiaro alla realtà di oggi ed al legittimo desiderio di maggiore autonomia dei poteri locali: «Il richiamo all’unità e indivisibilità della Repubblica vale a segnare, tra i "Principî fondamentali", quello di un invalicabile vincolo nazionale; e nello stesso tempo mette in evidenza come il riconoscimento e la promozione delle autonomie siano parte integrante di una visione nuova dell’unità della nazione e dello Stato italiano».

Reali e Im-maturi

Il reale è fluido e mutevole, e così sono gli esseri umani. Tutto intorno a noi, tutti noi siamo sempre in crescita, sviluppo, modificazione. Da un certo punto di vista, sempre im-maturi. Non mi auguro maturità. “Se dipendesse da me”, diceva Gilberto Freyre, artista e sociologo brasiliano, “non sarei mai maturo, né nelle idee, né nello stile, ma sempre verde, incompiuto, sperimentale”. Ritengo che così vada declinata la crescita, concetto al centro di un dibattito molto interessante, compreso, di contro, il tema della “decrescita”, o del “benessere senza crescita”. Il reale è sempre mutante e riconvertibile: per questo, è importante far leva su alcune coordinate essenziali per combattere il possibile smarrimento. Inserire, nella nostra geografia emozionale, un rapporto, riscoperto nella sua essenzialità, con la natura. Riporto un brano che trovo molto interessante: “La spettacolare evoluzione tecnologica degli ultimi decenni ha infatti in qualche modo occultato quella che rimane pur sempre la base indispensabile di ogni tipo di produzione, fino a indurre la rimozione di un fatto elementare quanto imprescindibile: che cioè tutto quanto acquistiamo, usiamo, consumiamo, scartiamo […], tutto è fatto di ‘natura’, minerale, vegetale, animale. Di altro non disponiamo”. L’autrice è Carla Ravaioli, giornalista e saggista, che è stata anche parlamentare. Il rapporto tra essere umano e natura è ambivalente, da sempre. La natura e la Terra, come principio femminile che dà la vita. Nel mito greco, Gea, la grande dea, la Madre Terra, dà alla luce da sola, per partenogenesi, Urano, il cielo, e Ponto, che simboleggia le profondità del mare. Partorirà poi le stirpi dei titani, dei ciclopi, degli ecatonchiri: stirpi terribili e anche mostruose. La Terra dà la vita, ma la vita non è una commedia soft, è anche tragedia e dolore. Questo vollero dirci i greci. Questo ha a che fare con il rapporto ambivalente di cui dicevo prima. Sta crescendo la consapevolezza dell’intimo, necessario, imprescindibile rapporto tra essere umano e natura, ma l’ascolto di quanto la Terra ci dice, compresa la sua grande sofferenza per le ferite che le vengono inferte, è ancora scarso e, soprattutto, non porta a risposte abbastanza efficaci. Qualcuno sostiene che noi tutti, oggi, siamo talmente deprivati di spazi relazionali, di tempo libero da dedicare alla cura ed ai sentimenti, di ascolto della propria soggettività in rapporto a quella altrui, che ci tuffiamo nella soddisfazione immediata di alcuni bisogni materiali e ci riempiamo di superfluo, senza pensare a quanto questo ferisca la nostra casa comune. Per sconfiggere il gigante Anteo, che traeva forza da sua madre Gea, Eracle lo immobilizzò e lo tenne sollevato. Anteo non ebbe più, letteralmente, i piedi sulla terra, e fu sconfitto. Dovremmo rifletterci.