sabato 25 febbraio 2012

Muri e mura

La musica rock e pop è stata una componente importante della cultura del Novecento. Non solo a livello artistico: vi sono transitate questioni e dilemmi del secolo. Alcuni di questi temi rimangono ancora oggi, con tutta la loro pregnanza. Pensiamo al tema dei muri e dei confini. La cruda realtà della globalizzazione (attenzione! Non è un giudizio di merito: è una constatazione) ci mette di fronte ad un mondo virtualmente senza confini, e lo spaesamento è grande, il timore si amplia, fino al punto di moltiplicare quei muri concreti che, seppur limitati, ci fanno illudere di poter porre un limite alle “invasioni barbariche” di cui forse ognuno ha paura. Ma attenzione: ognuno ha il suo barbaro, che può essere lo straniero malvisto, come colui che ci “rapina” un posto macchina in un parcheggio, o chi riceve una promozione sul lavoro a cui aspiravamo. La lista sarebbe lunga. Meglio tornare ai muri. I Pink Floyd, una grande band degli anni ’70 dello scorso secolo, compose – era il 1979 – un album da titolo “The Wall”, il muro. Solitudine, massificazione: possiamo sfuggire a questo destino iscritto nella modernità, diceva quest’opera, abbattendo i muri. Il muro eretto dentro ognuno di noi. Diversi anni più tardi, David Bowie canterà, sotto il muro di Berlino, “Heroes”: «We can be heroes, just for one day». Eroi, per abbattere i muri, non per edificarli. Narra il mito greco che le antiche mura di Tebe si spostassero al suono della lira di Anfione, e che le mura di Troia fossero addirittura opera del dio Poseidone. Ma tutte, tutte sono crollate, o sono state violate, o, semplicemente, non sono più servite allo scopo. Così come il Vallo di Adriano o la Grande Muraglia Cinese, piuttosto che la linea Maginot o la linea Gotica. Passano i secoli, la storia dimostra che muri e mura crollano o vengono abbandonati; eppure, si continuano a costruire recinzioni, gabbie, barriere. Addirittura un quartiere di Parigi, Villa Montmorency, è protetto da barriere e sistemi di sicurezza video sorvegliati. Chissà che, un giorno, anche queste nuove mura – analoghe a quelle che sorgono dentro molte coscienze - non si muovano al suono della lira di un novello Anfione.

venerdì 17 febbraio 2012

Il libro non è affatto un lusso

Lucio Lombardo Radice, uno studioso ingiustamente poco conosciuto. Carlo Bernardini ha detto di lui che era “onnigrafo”: non si lasciava sfuggire nessuna occasione per intervenire, interloquire, esprimere la propria opinione. Vivace, attento, sempre presente. Già anziano, era andato a parlare in una scuola elementare, e un bambino aveva detto che era “vispo come un capretto”: un’immagine stupenda. Mi è venuto in mente, perché uno dei temi di cui si parla in questo oggi difficile, melanconico, ridotto all’osso, è la scuola. L’istruzione. Il sapere. Non che siano sinonimi: tutt’altro. Ma vediamo come li declinava Lombardo Radice (che era nato nel 1916). Fu matematico, pedagogista, politico. Fu partigiano, non solo durante la lotta di Liberazione, ma nell’affrontare i temi politici, etici, culturali del suo tempo. Leggiamo questo brano: “La cultura non gode buona fama nel linguaggio corrente (erano i primi anni ’60 del Novecento… doveva ancora venire la frase per cui con la cultura non ci si fa un panino, ndr); la scuola, poi, non ne parliamo. Quando qualcosa ci riesce incomprensibile, diciamo che è <<algebra>>; definiamo, con malcelato disprezzo, <<poesia>> le aspirazioni e le azioni che non procacciano utilità e ricchezza; sosteniamo, soprattutto se andavamo male a scuola, che «i primi della classe sono gli ultimi nella vita». Un quadro senza vita e uno scritto senza anima sono «compitini»; tutto ciò che è inutile e tedioso è «scolastico», tutto ciò che è lontano dalla vita è «libresco». Protesto contro i luoghi comuni d’ogni giorno, della lingua d’ogni giorno; protesto soprattutto contro la svalutazione del libro! Il libro non è affatto un lusso, è una necessità nella vita d’ogni uomo e d’ogni donna che vogliano essere davvero uomini, cioè vite che ereditano, e tramandano ad altre vite il patrimonio della civiltà”. Una rivendicazione sapiente e semplice di una eredità non mercantesca, non finanziaria, legata alla cultura, a ciò che – come dice la radice – ci coltiva e ci fa crescere. Ancora un brano, sulla scuola pubblica: “vorrei […] che la scuola pubblica divenisse una scuola di educazione positiva ai valori comuni, a quei valori di giustizia, di uguaglianza, di disinteresse, di ripugnanza a ogni privilegio, di democrazia reale, di progresso, di ragione aperta che sono il «credo comune» della stragrande maggioranza dei cittadini italiani”. Lo viviamo come un augurio ed una prospettiva, che caldeggiamo apertamente.

venerdì 10 febbraio 2012

"Sostenere la comunità di vita"

La “teologia della liberazione” è una corrente di pensiero, sviluppatasi all’interno del cattolicesimo di ambiente latinoamericano, molto attenta ai temi sociali e politici presenti nel messaggio cristiano. I suoi esponenti, sin dalla fine degli anni ’60, si sono schierati al fianco dei poveri, degli umili, dei diseredati, non soltanto dal punto di vista della carità, dell’aiuto e della solidarietà, ma anche sostenendone le rivendicazioni a carattere sociale e politico. Il nome deriva dal libro omonimo del sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez, Teologia della liberazione, uscito nel 1971. La Chiesa ufficiale non ha mai gradito le tesi espresse da questi teologi, frati, sacerdoti, sino alla opposizione ferma di papa Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Joseph Ratzinger. I principali esponenti furono allontanati progressivamente dai luoghi decisionali della Chiesa, e qualcuno decise una rottura radicale. È il caso del francescano Leonardo Boff, che aveva diviso il suo impegno per anni tra l’insegnamento (come professore di teologia, filosofia, spiritualità ed ecologia) e la condivisione dell’esistenza degli ultimi e dei diseredati. Attento alle persone ed alla Madre Terra, Boff è uno studioso dei temi della sostenibilità ambientale. A questo proposito, ha scritto una sorta di decalogo, di cui riportiamo ampi stralci. Il fascino della sua visione olistica sta anche nella semplice grande forza dei concetti. “Sostenere tutte le condizioni necessarie per il sorgere di nuovi esseri: questi esistono soltanto a partire da un congiungimento di energie, di elementi fisicochimici e informazionali, che, combinati tra loro, danno origine a tutto. Sostenere tutti gli esseri: si tratta di superare radicalmente l’antropocentrismo. Tutti gli esseri costituiscono soggetti emergenti del processo evolutivo e godono di valore intrinseco, indipendente dall’uso umano. Sostenere soprattutto la Terra viva: la Terra […] stessa è viva, si autoregola, si rigenera e evolve. Sostenere anche la comunità di vita: non esiste l’ambiente come qualcosa di secondario e periferico. Noi non esistiamo, ma coesistiamo e siamo tutti interdipendenti. Sostenere la vita umana: siamo un asse singolare nella rete della vita […] Avvertiamo di essere chiamati ad aver cura della Madre Terra, a garantire la continuità della civiltà e a vigilare anche sulla nostra capacità distruttiva. Sostenere la continuità del processo evolutivo: gli esseri sono conservati e sostenuti dall’Energia di fondo o Fonte originaria di ogni essere. Sostenere la soddisfazione dei bisogni umani: lo facciamo attraverso l’uso razionale e premuroso dei beni e servizi che il cosmo e la Terra ci offrono senza i quali potremmo soccombere. Sostenere la nostra generazione e quelle che verranno dopo la nostra: la Terra è sufficiente per ogni generazione, purché queste stabiliscano una relazione di energia e di cooperazione con lei e distribuiscano beni e servizi in modo equo. L’uso di questi beni deve basarsi sulla solidarietà generazionale. Le future generazioni hanno il diritto di ereditare una Terra e una natura in buono stato”.

venerdì 3 febbraio 2012

Un pensiero femminile

Sono sempre stato attento alla capacità femminile di pensiero e di riflessione. Ricordo una mia insegnante del Liceo, storia e filosofia. Donna di grande autorevolezza, ma capace di affetto e di umanità, ci conduceva entro le sue materie con lucidità, passione, e un vigore intellettuale che ho apprezzato in pieno solo in seguito. Anche per questo cerco di seguire la produzione femminile e femminista di pensiero, che a volte ci dona testi preziosi, come questo di Ina Praetorius, “Penelope a Davos. Idee femministe per un’economia globale”, tradotto in italiano nei “Quaderni di Via Dogana”. Praetorius è una dottora in teologia protestante e saggista tedesca. Definisce questi suoi scritti “tentativi di pensare in modo postpatriarcale”, partendo da una analisi: la crisi globale, lo strapotere della finanza e dell’economia di carta, la distruzione dei legami sociali ha molto a che fare con il dominio patriarcale e la soggezione millenaria delle donne, che ha provocato, tra l’altro, la loro assenza dalla vita pubblica. L’autrice conia un termine, la “Daseinkompetenz”, cioè la competenza dell’esserci, che diventa una cultura ed una pratica, di segno femminile, capace di disegnare un mondo “altro” rispetto a quello, per sintetizzare, dell’economia immateriale, ed è un mondo che già c’è, è in presenza. È il mondo della cura: cura degli aspetti relazionali, dei bisogni materiali ed affettivi, del “mettere al mondo”. Grandi competenze femminili, e un grande pensiero, tra gli altri: il falso mito dell’indipendenza, il fatto che la libertà si possa declinare come indipendenza. Tutti e tutte dipendiamo, in realtà: a partire dalla madre che ci ha partorito, dai legami sociali ed affettivi, dall’acqua dall’aria dalla terra che ci nutre. È vero, care lettrici e lettori: il modo prometeico di vedere la vita, la “Weltanschaung”, la visione del mondo per cui l’uomo domina la natura e si erge solo a lottare contro le difficoltà, ci ha fatto dimenticare il senso del limite, consumare in modo dissennato le risorse, distruggere l’ambiente. Essere partoriti, dice Praetorius, significa che veniamo da una “matrice”, dal grembo materno: un involucro nutriente, che lasciamo, ma solo per entrare in una rete di relazioni e di legami, per cui, scrive l’autrice, “permaniamo all’interno della trama matrice-mondo”. Non si può sopravvivere senza aria, senza acqua, senza cibo, ma neppure senza morale, senza lingua, senza amore. Concludo: se la crisi consentirà un maggiore ascolto di voci come questa, non ne saranno venute solo disgrazie.