sabato 30 giugno 2012

Un apparato che chiamiamo essere umano


Un’immensa quantità di informazioni viaggia ogni secondo in tutto il mondo. Milioni di miliardi di dati, ogni secondo. Apparati elettronici, circuiti integrati, macchine, elementi materiali e immateriali: ma niente che, ancora, possa competere con la mente umana. E’ stato calcolato che un computer che volesse simulare un essere umano dovrebbe compiere un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, con un impatto energetico infinitamente superiore a quello che serve ad una persona per vivere. E’ interessante ragionare in questi termini, per riflettere sempre di più su quanto straordinario e irripetibile siano il corpo e la mente umana. Ma che cos’è, l’uomo? Non si potrebbero contare in una vita le pagine, i volumi, i tomi che sono stati scritti sull’argomento. Giovanni Pico della Mirandola, pensatore rinascimentale, sosteneva che l’uomo, tra tutte le creature, è un indeterminato: “animale di natura varia, multiforme e cangiante”. Caratteristiche che sarebbero alla base della libertà e dell’autonomia umane. Ma già Origene, grande teologo dell’età tardo antica, che subì la distruzione delle sue opere, comandata da Giustiniano, in quanto condannato dal concilio di Costantinopoli del 533, sosteneva che, al di là delle leggi fisiche che ci governo, l’uomo agisce per un atto individuale di volontà. L’uomo è un indeterminato di per sé, ma capace di essere ciò che vuole essere. Un’iniezione di libertà cognitiva e comportamentale, straordinaria per l’epoca e per il determinismo intellettuale che dominava. Non a caso, da Pico, prima citato, a Erasmo, a Shaftesbury, fino a Kant (nella foto) e a Schelling, Origene è un punto di riferimento, un “buon maestro”. L’autonomia kantiana (libertà e necessità coesistono nel concetto di autonomia, quando l’uomo obbedisce ad una legge che liberamente si è dato) affonda qui le sue radici. Ecco, quindi, il valore di quell’apparato capace di un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, capace di libertà e di regola, di autonomia e di relazione, quell’apparato di pensieri, carne, ossa che chiamiamo essere umano.

sabato 23 giugno 2012

Discrasie, contraddizioni, cortocircuiti. Ingiustizie


Ha scritto recentemente Zygmunt Bauman (nella foto), in un articlo sul quotidiano “La Repubblica”: non riusciamo più a ragionare in maniera efficace di una società giusta. Questo deriva dal fatto che non c’è un soggetto credibile che se ne faccia promotore. Poiché “tutto nasce dal divorzio sempre più evidente tra il potere - la facoltà di porre in atto un progetto - e la politica - la capacità di decidere che cosa fare o non fare”. E il potere è trasmigrato in buona parte dallo Stato-nazione a uno spazio globale sopranazionale. Siamo globalmente interdipendenti, ma i livelli di governo sono locali. Si chiede Bauman se sia giunto il momento di colmare questo divario, questo enorme intervallo. Non ne indica però gli strumenti: una sorta di “grande fratello” governativo globale? Questo comporterebbe gravi problemi di gestibilità e di garanzia democratica. Ma voglio sottolineare alcuni elementi: i livelli di governo (nel senso del governo politicoamministrativo) sono ormai gravemente deficitari dal punto di vista rappresentativo, nel senso “classico” del termine. Nel contempo, i soggetti realmente decisori sono notevolmente scostati e diversificati da quelli, ma ciononostante non esauriscono il potere decisionale in senso complessivo (una variante ad un piano regolatore, o una mancata variante, o una riforma del lavoro scellerata eccetera sono nella potestà di soggetti di governo del primo tipo, eterodiretti quanto si vuole, ma la potestà nelle assemblee elettive è loro). Poi ci sono coloro che - la stragrande maggioranza - non stanno né qui né là. Sempre più soggetti, tra questi, decidono di starsene in disparte, magari a difendersi dai colpi, oppure si impegnano al suono delle parole dei grilloparlanti di turno. Poi c'è una costellazione di altri soggetti, variamente interessati alla sfera pubblica. Non credo che sia più possibile un modello che li integri unitariamente. Qualcosa deve saltare. Ci sono troppe discrasie, troppe contraddizioni, troppi cortocircuiti, cose che non tornano, ingiustizie. Grandi.

sabato 16 giugno 2012

Gli apprendisti stregoni


In uno dei film più belli mai realizzati, “Fantasia”, di Walt Disney (film a tutti gli effetti, sofisticato, curatissimo,non semplicemente un lungometraggio di animazione), c’è un episodio dedicato all’apprendista stregone. Lo ricorderete: Topolino o Mickey Mouse, che dir si voglia, sulla musica di Paul Dukas, apprendista dello stregone Yen Sid, prova dei trucchi di magia senza però conoscere come controllarli. Le conseguenze sono immaginabili. l’episodio ha un retroterra molto colto: si tratta della ballata omonima che Wolfgang Goethe compose nel 1797, a sua volta ispirata a un episodio del Filopseudès, ovvero “l’amante del falso”) di Luciano di Samosata. Goethe narra di uno stregone che si assenta e del suo apprendista che decide di usare la magia per animare una scopa e fare le pulizie con nessuna fatica. Ma la scopa è incontrollabile, e si sfiora il disastro, rimediato, poi, al sopraggiungere dello stregone. La morale è chiara: meglio non cominciare qualcosa che non si sa come finire. L’immagine di Topolino che non sa come fermare la scopa da lui animata mi è tornata in mente, quando ho letto di alcuni sviluppi della ricerca sulla modificazione genetica. Amo i gatti, l’ho detto più volte, quindi sono rabbrividito ulteriormente, quando ho letto di gatti nel cui dna sono stati trasferiti geni di specie diverse, come quello di una medusa che li rende fluorescenti quando vengono osservati sotto la luce blu. Terribile. Si trattava, pare, di una ricerca condotta nell’ambito dello studio delle interazioni tra il virus dell’immunodeficienza felina e quello della sindrome di immunodeficienza acquisita. Ma i ricercatori hanno ammesso che la ricerca non sarà utilizzata direttamente sugli esseri umani. Allora, cui prodest? Gli animali non sono, non possono essere, non dovrebbero essere semplici pedine di una scacchiera eterodiretta; non sono sequenze geniche da manipolare, ma creature, a tutti gli effetti. Sono esseri senzienti, provano dolore, sentono l’affettività, ne manifestano. Sono convinto che chi faccia del male ad un animale potrebbe farlo anche ad un uomo. Sono convinto che questo archivio folle di pratiche manipolatorie stia lì, da una parte, per ora semplice (?) “gioco” scientifico, un domani applicabile anche – chissà – a creature “superiori”. Speriamo di no, ma gli apprenditi stregoni sono troppi e incontrollati. 

sabato 9 giugno 2012

Sembrava che la scuola fosse fatta solo per lui


Non me ne vorrete se, questa settimana, userò lo spazio che mi viene offerto per trascrivere ampie citazioni di un testo, ormai raro, ma molto attinente alla preannunciata, ennesima riforma della scuola, di cui ha parlato il ministro Profumo, che ha lanciato l’idea del “premiare i meritevoli”. Una grande idea? Intanto, non nuova: è anche in Costituzione, all’articolo 34: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. La questione è, credo: i capaci e meritevoli sono per definizione i più bravi? Sono i migliori? O non sono, piuttosto, quelli che si impegnano, che si pongono un obiettivo, che ne riconoscono il valore e si battono per raggiungerlo, mettendo in conto anche il possibile fallimento? Mario Lodi, maestro, scrittore, pedagogista, scriveva nel 1971: “Ho capito una cosa fondamentale, che ha dato al mio lavoro sempre nuovo vigore, quando venivano i dubbi: che la via per risolvere i problemi del nostro lavoro e della vita comunitaria è quella del mettersi insieme, perché l’individuo che risolve da solo tutti i problemi, per bravo e intelligente e doto che sia, non esiste. Nessuno può risolvere i problemi della gente se non si conoscono sino in fondo attraverso la viva voce dell’esperienza dei protagonisti. [Ritengo quindi] valida l’impostazione comunitaria del lavoro sia a scuola, sia nell’ambiente sociale esterno”. Una grande idea: praticare un’impostazione comunitaria del lavoro a scuola è valida palestra per trasferirla nel mondo. È l’idea per cui il risultato di un lavoro collettivo è sempre superiore alla somma dei lavori dei singoli. E, a proposito dei “più bravi”, leggiamo questo brano da “Lettera a una professoressa”, di don Lorenzo Milani e dei suoi allievi. Parlano della scuola di Barbiana, e dicono:“la vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare. Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse fatta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti”. Ci ritorneremo sopra.

sabato 2 giugno 2012

Pochi momenti come questi belli


Da molti anni, abbiamo una fenomenologia del calcio che si nutre, oltre che di simboli, di studi sociologici e linguistici. Espressioni calcistiche si sono inserite nel linguaggio della politica (lo “scendere in campo” di un ex presidente del consiglio); leggiamo ovunque metafore pallonare (chi ha un po’ più di anni, come me, ricorda il verbo "dribblare", usato in caso di comportamenti che schivavano ed evitavano). Resistono le partite nei campetti di oratorio, di periferia; nelle località di mare, la partita nel “gabbione” o sulla spiaggia è imperdibile. Il calcio ha prodotto istantanee stampate nel nostro immaginario: la rovesciata di Parola; il gol di Pelé su Burgnich; l’urlo di Tardelli. I miti, i simboli: penso a questo, quando ascolto le notizie sullo scandalo delle scommesse. Dice l’uomo della strada: ma come, guadagnano, a certi livelli, cifre iperboliche, incredibili, e poi lucrano anche sui risultati e vendono le partite? Ha terribilmente ragione. Scriveva il poeta Pier Paolo Pasolini, che era un grande appassionato di calcio e che lo giocava volentieri: «Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica». Se il calcio non farà grande, profonda, radicale pulizia (sempre che ciò sia possibile, sempre che l’infezione non consenta il recupero dell’arto), quella poesia, quella sovversione del codice, quel momento irripetibile da descrivere (ci ha provato un poeta, Umberto Saba), in cui le persone sono felici, esultano, si abbracciano: “Pochi momenti come questo belli,/a quanti l’odio consuma e l’amore,/è dato, sotto il cielo, di vedere” non sarà più. E allora, a che cosa servirebbe, senza simboli, senza poesia, senza sovversione, senza felicità, un campo in cui ventidue persone in calzoncini rincorrono un pallone?