sabato 29 ottobre 2011

Pensare visivamente

Il “visual thinking” è quella pratica di studi e di ricerca con cui si comprende, si analizza e si decide, utilizzando le immagini. Le idee vengono pertanto rappresentate utilizzando simboli e parole. Gli studiosi di questa pratica cognitiva ne ravvisano una grande utilità proprio nel mondo di oggi, in cui velocità e complessità del cambiamento pretendono nuovi strumenti. Inoltre, scrive Tom Wujec, un’autorità indiscussa nel campo, “l’aumento di strumenti digitali a basso costo rende più semplice pensare per immagini”. Animazioni, simulazioni, immagini in tridimensionale: la materia è questa, apprezzata proprio in quanto l’immagine genera chiarezza. Ma qualche riflessione si impone: ho imparato a mie spese quanto sia vano opporsi al mutare degli strumenti cognitivi ed alla “ratio” di nuove tecniche di produzione e di diffusione del sapere. Però … Osservavo con un collega, proprio qualche giorno fa, che, leggendo alcuni elaborati di giovani studenti ero rimasto colpito da uno stile comune, fatto di frasi rapide, periodi secchi, quasi troncati. Insomma, l’assenza quasi totale di ipotassi. Ne individuavamo le cause nella civiltà dell’immagine rapida in cui le ultime generazioni sono cresciute: clip, video, musica rap, house, hip hop, un fraseggio breve, sincopato, veloce. Anche la narrativa si evolve in questa direzione. Ricordo che rammentavo - con una nostalgia, devo dire, nutrita a posteriori dalla consapevolezza - quel fraseggio ampio e articolato del grande romanzo dell’Ottocento: lo stesso Manzoni, “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien quasi a un tratto, tra un promontorio a destra e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda ricomincia per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni...”, o Dostoevskij, o Stendhal, “La sua anima era assorta; rispondeva distrattamente alla viva tenerezza che Mathilde gli dimostrava; rimaneva silenzioso e cupo. Mai era sembrato così grande, così adorabile agli occhi di lei, timorosa però che qualche sottigliezza del suo orgoglio rovinasse tutta la situazione”. Mi perdevo in reminiscenze di grande letteratura e sono stato riportato sulla terra: “ma secondo te, oggi, chi legge Stendhal?”. Ai lettori, se vogliono, la risposta.

sabato 22 ottobre 2011

Filosofia o Prozac

Pare che, oggi, infilare nel titolo di un libro la parola “filosofia” o il nome di un filosofo sia un buon viatico per il successo. Fame di conoscenza, o fenomeno di moda? Tra i tanti, ricordo, non recentissimo ma molto gradevole, “Platone è meglio del Prozac”. Mi viene da pensare che, se il grande Charles Schulz avesse disegnato oggi Lucy, non l’avrebbe posta in un box con il cartello “Psychiatric Help 5 Cents”, bensì “You need philosophical help”. In un mondo che chiede e nega, al contempo, autonomia, la capacità di darsi norme e regole per conto proprio, la filosofia fornisce strumenti, parole e terreno di sviluppo. Aiuta le persone ad affrontare i dilemmi etici, compresi quelli legati ai grandi temi della vita e della morte. Alain de Botton fa degli argomenti filosofici dei veri e propri “self help books”, perché “consolazione viene da cultura. L’educazione è decisiva. Ma chi la produce non sembra consapevole del fatto che la cultura è consolante e aiuta. Abbiamo bisogno di didattica, apprendimento, insegnamento. Non siamo solo esseri indipendenti, razionali, individuali. Abbiamo bisogno di parole come moralità, consolazione, guida”. Alla filosofia si chiede un’azione terapeutica sull’autostima individuale e sulla capacità di stare al mondo, interpretandolo. Già il filosofo Boezio, vissuto a cavallo tra il V ed il VI secolo dopo Cristo, incorso in disgrazia politica aveva cercato conforto nelle riflessioni filosofiche, scrivendo la sua grande opera “De consolatione philosophiae”. Una vocazione terapeutica, consolatoria, pratica della filosofia. D’altronde, Boezio sa che l’unica vera conoscenza che vada al di là del nostro presente è quella divina, perché ciò che per noi è futuro, per Dio è presente. Solo Dio conosce pienamente il futuro: ogni evento é l'effetto di una causa, e Dio, conoscendo le cause, conosce simultaneamente anche i loro effetti, e poiché la volontà umana fa parte delle cause che danno luogo a eventi, Dio conosce anche quale é la volontà dei singoli, benché il fatto che egli la conosca non significhi che egli annulli la libertà del volere. Tommaso dirà: come quando vediamo un vascello e sappiamo già quale sarà la sua rotta, ma non per questo possiamo influenzarla, così Dio sa già come ci comporteremo ma non per questo limita la nostra libertà. Ma bastano pochi secoli, e Karl Marx scrive (è il 1845) la sua XI tesi su Feuerbach: "I filosofi hanno solo interpretato il mondo, in modi diversi; ora si tratta però di cambiarlo". Heidegger diceva che il pensiero ha il compito di cercare l’unica cosa di cui c’è bisogno, cioè che manca. E il philosophein è il cercare, appunto, ciò che manca. Se per Marx essere nel mondo è una necessità ineluttabile per il pensiero, cui esso non può opporsi, la necessità che si pone, quindi, è quella del
trasformare. Meditiamolo..

lunedì 17 ottobre 2011

La parola e la violenza

L‘umanità ha fatto un percorso lunghissimo per passare dalla violenza del gesto alla discussione con la parola. Questo atteggiamento conquistato a caro prezzo dalla specie umana ha un presupposto forte: il rispetto, il senso rispettoso della comune appartenenza all’umanità come dato che ci lega all’altro/l’altra da noi. Quando questo presupposto viene a cadere, l’altro diventa essere, quando va bene, da ignorare, oppure da seviziare, da colpire, da distruggere. Eppure, nel mondo animale non umano è forte il senso di appartenenza alla specie. Ci sono certamente degli esempi di violenza endogena, ma, normalmente e tendenzialmente, il simile non attacca il simile, se non in circostanze eccezionali dal punto di vista climatico, spaziale etc. Nella specie umana, invece, la violenza tra simili è un dato, direi, anormale in quanto è sanzionato da leggi penali e norme morali, ma la repressione non cancella certo il fenomeno. Achille che strazia il corpo del vinto Ettore risponde ad un codice certamente primitivo, ma che vede nel ludibrio violento rivolto verso l’altro una modalità di agire non certo isolata. Nei campi di sterminio, i prigionieri erano chiamati attraverso un numero loro attribuito: un modo per depersonalizzare, per togliere umanità. Gli aguzzini ed i carnefici agiscono in quanto non riconoscono alle vittime lo status di essere umano. Lo stesso fanno i ragazzi che, in fatti di cronaca ahimè non così rari, si accaniscono contro i senza tetto o le persone in difficoltà o i portatori di handicap psicofisici. Paiono perdersi, in questi casi, i fondamentali dell’essere umano: non ci dovrebbe essere, forse, un naturale ribrezzo ad accanirsi nei confronti di chi è più debole? L’animale vittorioso in un duello non morde il collo che l’avversario vinto gli porge. L’animale uomo, invece, prende la mira e spara nella schiena di una madre che fugge con il figlioletto in braccio:una delle foto più tragiche della Shoah. Chi dobbiamo interpellare, quando ci troviamo di fronte quell’aggressività malsana, quella violenza inusitata che fraintende la crudeltà con la forza e l’affermazione della propria identità con l’accanimento fisico sul più debole ed il più indifeso? La filosofia non ha risposte definitive, ma può comunque continuare a porre le domande.

sabato 8 ottobre 2011

Ricerca pura e apllicata

Riflettevo sul recente premio Nobel per la medicina, assegnato per le scoperte sull’attivazione delle difese dell’organismo umano. C’è sempre il rischio di banalizzare, quando si parla di alta ricerca, proprio come quei titoli di giornali che sparano: assegnato Nobel per la medicina a ricerca che porterà a debellare il cancro … Piano, piano. Ho letto che uno degli scienziati premiati ha iniziato con lo studiare il meccanismo di difesa di un moscerino della frutta. Sicuramente, nel suo orizzonte cognitivo ci sarà stata l’idea di giungere ad una possibile applicazione pratica delle eventuali scoperte, ma, sicuramente, l’amore per la ricerca avrà avuto un ruolo importante nel suo lavoro. Facciamo ora un passo in un’altra direzione: un recente articolo, molto interessante, di M.Curley e P.Formica, sull’innovazione ed il talento. Vi si legge, tra l’altro, questo percorso: innovazione e ricerca in Europa soffrono di rigidità e segretezza, mentre è essenziale la libera circolazione perché sia possibile “trasformare le idee in un business praticabile”. Si stabilisce, quindi, una filiera precisa tra ricerca e business. Quel che intendo dire è che, ormai, questa connessione pare la sola ad avere diritto di cittadinanza, nel pensiero corrente. Allora ho riletto un bellissimo testo, di molti anni fa, “L’ape e l’architetto”. Vi si parlava già di economia immateriale e si individuava con lucidità il tema della riduzione dell'informazione a merce. Si ponevano domande sul futuro ruolo della scienza, che è la forma più avanzata di informazione sul mondo, e sull’influenza che questo cambiamento avrebbe a sua volta portato alla produzione di scienza. Ha scritto, anni dopo, uno degli autori, Marcello Cini: “Una conseguenza fondamentale della mercificazione dell'informazione è che il nesso tra la ricerca scientifica "pura", cioè perseguita al solo scopo di conoscere in modo disinteressato la natura, e l'innovazione tecnologica, stimolata dall'interesse a inventare continuamente nuovi strumenti per soddisfare la domanda di un mercato sempre più esigente e sofisticato, si è fatto sempre più stretto, fino a diventare un intreccio difficilmente districabile”. È una domanda centrale del nostro presente. Per questo, mi preoccupa l’insistenza sul nesso ricerca-innovazione-competititvitàbusiness: la ricerca è anche altro. “Fatti non foste per viver come bruti/ma per
seguir virtute e canoscenza”.