A che cosa può servire un libro “che non è né istruttivo, né divertente, né
filosofico, né elegiaco, che non parla né di chimica né di agricoltura, un libro
che non dà nessuna ricetta né per le pecore né contro le pulci, che non parla né
di ferrovie, né della Borsa, né dei recessi del cuore umano, né della foggia
degli abiti medievali, né di Dio, né del diavolo, ma che parla di un folle,
ovvero del mondo, questo grande idiota, che gira da tanti secoli nello spazio
senza fare un passo e che urla, sbava, che dilania se stesso?”. Sono le “Memorie
di un folle” di Gustave Flaubert. Il mondo folle, come in un’opera di Hieronymus
Bosch, pittore così descritto dalla penna magistrale di Dino Buzzati: “Bosch
nasce nel 1460 in Olanda, ducato di Borgogna; il suo tempo è a cavallo tra la
fine di un’era, il Medioevo e l’alba del Rinascimento. L’arte fiamminga ha
sempre interpretato con inquietudine questo tempo di guerre, di violenze e di
fanatismi religiosi, in cui l’inquisizione apre la caccia alle streghe e la
persecuzione della magia. È in atto una crisi dei valori che nella seconda metà
del XV secolo è avvertibile in tutta Europa e che culminerà nella riforma
luterana. Ma Bosch ne parla con originalità, è infatti conosciuto per le sue
opere enigmatiche e inquietanti, per le immagini fantastiche, demoniache, per i
simboli, e le creature che sembrano aver poco di reale. Tutto ciò però non è
soltanto il frutto di una fantasia sfrenata: sono immagini della cultura alta e
popolare. Di classe agiata, frequentava associazioni laiche, ma molto cristiane.
Muore nel 1516; ma fu per la città di quel tempo un personaggio fuori dal
comune, importante, rispettabile e rispettato”. Rispettato, anche nella sua
apparente follia: “Lo si conosceva così, dalla sua risata – non dalle parole o
dal suo modo di dipingere, ma dal suo riso. La sua fama di folle ha presto
rimpiazzato la sapienza che cercavamo in lui; sapevamo bene che folle è colui
che ha lo sguardo più fino sul mondo. Il folle è diverso, perché sa porsi al di
fuori della realtà – e riderne, appunto. Non è forse la follia a rendere l’uomo
libero?”. Non è forse la follia che sembra abitare tante apparenti “normalità”
dei nostri tempi? E forse non sono stati giudicati folli, molte volte,
comportamenti controcorrente, diversi, insoliti, contrari alla morale imperante?
Non era forse un folle Francesco? O Gandhi? O lo stesso Cristo? Quante volte il
mondo li ha rinnegati, ed ha così dilaniato se stesso.
sabato 28 luglio 2012
sabato 21 luglio 2012
Un "cuore pensante"
"La vita è difficile, ma non è grave". Olandese, di famiglia ebraica, nata
nel 1914, Etty Hillesum si laureò in giurisprudenza ad Amsterdam. Era una
giovane donna appassionata, di intelligenza vivace e capace di riflessioni molto
profonde, a volte abbaglianti. Un “cuore pensante”. Etty Hillesum e la famiglia
subiscono, a partire dall’estate del 1940, come tutti gli olandesi,
l’occupazione nazista. nazista del popolo ebraico. Etty dapprima scrive: “Paura
di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me
stessa. Repulsione. Paura”, per poi giungere a “Bene, accetto questa nuova
certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò fastidio
con le mie paure, non sarò amareggiata se gli altri non capiranno cos'è in gioco
per noi ebrei. [...] Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e
trovo la vita ugualmente ricca di significato”. Affida ad un diario (scritto tra
il marzo del ’41 e l’agosto del ’43) il suo percorso spirituale: sarà l’opera
che la farà conoscere, insieme alle sue lettere, anche se con ritardo, negli
anni Ottanta dello scorso secolo. Iniziano le deportazioni di ebrei nei campi di
sterminio (di cui è simbolo la giovanissima Anna Frank): Etty potrebbe forse
salvarsi, ma parte volontariamente per Westerbork, il campo di transito usato
dai nazisti prima della deportazione verso Auschwitz, perché non intende
sottrarsi alla sorte comune. Etty e il suo “altruismo radicale” (così Dario
Arkel e Elena Petrassi): “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Nel
diario e nelle lettere leggiamo il suo itinerario della mente e dello spirito
verso Dio, il racconto di amori e rapporti umani, l’empatia totale con l’altro.
Una sovrabbondanza di vita: “E’ vero che vivo intensamente, a volte mi sembra di
vivere con un’intensità demoniaca ed estatica, ma ogni giorno mi rinnovo alla
sorgente originaria, alla vita stessa, e di tanto in tanto mi riposo in una
preghiera”. Ella stessa racconta di essersi ritrovata, un giorno, “spinta a
terra da qualcosa che era più forte di me”, per cui “si deve avere anche il
coraggio di pronunciare il nome di Dio”, perché “Dio non è responsabile verso di
noi, siamo noi a esserlo verso di lui”. E, nell’ultima lettera di Etty,
leggiamo: “Dio è in buone mani”. Viene deportata ad Auschwitz e lì muore, il 30
novembre del 1943, a 29 anni, con il padre, la madre e un fratello. Aveva
scritto, in piena occupazione: “Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli
si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso
dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo prendere
sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare sé
stessi” non è proprio una forma di d'individualismo malaticcio. Una pace futura
potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé
stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di
qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in
qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. E'
l'unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel
pezzetto d'eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come
in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio,
nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra”.
sabato 14 luglio 2012
Una patologica, efficace razionalità
In alcuni bellissimi testi dei primi anni ’70, Gilles Deleuze e Felix
Guattari, a seguito del loro lavoro su “L’anti-Edipo”, indagano sulla natura del
capitalismo, mettendo in luce, in particolare, un nesso inedito, tra
capitalismo, desiderio e schizofrenia. «Non c’è nessuna operazione, nessun
meccanismo industriale o finanziario che non riveli la follia della macchina
capitalistica e il carattere patologico della sua razionalità (non una falsa
razionalità, ma una vera razionalità di questa patologia, di questa pazzia,
perché la macchina funziona, siatene certi). Non c’è pericolo che questa
macchina impazzisca, lo è fin dall’inizio, ed è in questa pazzia che trova la
sua razionalità». Parole che rileggo sovente, nel riflettere su meccanismi,
parole ed azioni che vediamo svolgersi sotto i nostri occhi, se appena
intendiamo andare oltre la corsa dello spread. Pensiamo ad un premier che parla
di “guerra”: si tratta di un linguaggio devastante. Pensiamo: in guerra
l'emergenza è massima, si contano i morti ed i feriti, ci si sacrifica senza
giustizia ed equità per ottenere la vittoria. L’alternativa è tra uccidere o
morire. La democrazia è sospesa. Non a caso, Monti ha detto “siamo in guerra” ed
ha criticato pesantemente la “concertazione” (quindi la mediazione), parlando
all’Abi, cioè alle banche: un ambito in cui giustizia ed equità proprio sono
fuori contesto. Nella stessa giornata, la Bce (pensiamo: Banca centrale europea)
detta ai governi ulteriori regole in materia di politiche economiche e
salariali. Temo che sia in atto una svolta di tipo autoritario, che rischia di
essere epocale. Lo Stato moderno si è costituito, superando il vassallaggio,
attraverso la stipula di un patto sottoscritto tra gli individui non ancora
associati. Con questo patto, si cedeva una quota di “libertà” individuale
(sottostando a delle regole), in cambio di un sistema di protezione e di rete.
Oggi, lo Stato, gli Stati si stanno sottraendo a questo patto fondativo. Non
esiste più contrattualismo, bensì imposizione e pratiche predatorie, con una
governance dettata dall’economia, dalla finanza, apparentemente non politica,
che invece lo è profondamente. La democrazia è conflitto, ma non guerra; è
dissenso e assenso, in libera contrattazione, non vassallaggio e servaggio,
giustificati da una continua emergenza. Non mi hanno mai affascinato le
previsione di apocalittici scenari, ma mi sembra di intuire che qualcuno pensi
alla costruzione di una sorta di sistema neofeudale (appunto, il vassallaggio),
retto da tecnocrazia e finanziarizzazione. E' una feroce, cattiva
riorganizzazione del capitale, della sua razionalità patologica. E, se Deleuze e
Guattari avessero ragione, funzionerà.
sabato 7 luglio 2012
La qualità di un'epoca
Un’immensa quantità di informazioni viaggia ogni secondo in tutto il mondo.
Milioni di miliardi di dati, ogni secondo. Apparati elettronici, circuiti
integrati, macchine, elementi materiali e immateriali: ma niente che, ancora,
possa competere con la mente umana. E’ stato calcolato che un computer che
volesse simulare un essere umano dovrebbe compiere un miliardo di miliardi di
operazioni al secondo, con un impatto energetico infinitamente superiore a
quello che serve ad una persona per vivere. E’ interessante ragionare in questi
termini, per riflettere sempre di più su quanto straordinario e irripetibile
siano il corpo e la mente umana. Ma che cos’è, l’uomo? Non si potrebbero contare
in una vita le pagine, i volumi, i tomi che sono stati scritti sull’argomento.
Giovanni Pico della Mirandola, pensatore rinascimentale, sosteneva che l’uomo,
tra tutte le creature, è un indeterminato: “animale di natura varia, multiforme
e cangiante”. Caratteristiche che sarebbero alla base della libertà e
dell’autonomia umane. Ma già Origene, grande teologo dell’età tardo antica, che
subì la distruzione delle sue opere, comandata da Giustiniano, in quanto
condannato dal concilio di Costantinopoli del 533, sosteneva che, al di là delle
leggi fisiche che ci governo, l’uomo agisce per un atto individuale di volontà.
L’uomo è un indeterminato di per sé, ma capace di essere ciò che vuole essere.
Un’iniezione di libertà cognitiva e comportamentale, straordinaria per l’epoca e
per il determinismo intellettuale che dominava. Non a caso, da Pico, prima
citato, a Erasmo, a Shaftesbury, fino a Kant (nella foto) e a Schelling, Origene
è un punto di riferimento, un “buon maestro”. L’autonomia kantiana (libertà e
necessità coesistono nel concetto di autonomia, quando l’uomo obbedisce ad una
legge che liberamente si è dato) affonda qui le sue radici. Ecco, quindi, il
valore di quell’apparato capace di un miliardo di miliardi di operazioni al
secondo, capace di libertà e di regola, di autonomia e di relazione,
quell’apparato di pensieri, carne, ossa che chiamiamo essere umano.
sabato 30 giugno 2012
Un apparato che chiamiamo essere umano
Un’immensa quantità di informazioni viaggia ogni secondo in tutto il mondo.
Milioni di miliardi di dati, ogni secondo. Apparati elettronici, circuiti
integrati, macchine, elementi materiali e immateriali: ma niente che, ancora,
possa competere con la mente umana. E’ stato calcolato che un computer che
volesse simulare un essere umano dovrebbe compiere un miliardo di miliardi di
operazioni al secondo, con un impatto energetico infinitamente superiore a
quello che serve ad una persona per vivere. E’ interessante ragionare in questi
termini, per riflettere sempre di più su quanto straordinario e irripetibile
siano il corpo e la mente umana. Ma che cos’è, l’uomo? Non si potrebbero contare
in una vita le pagine, i volumi, i tomi che sono stati scritti sull’argomento.
Giovanni Pico della Mirandola, pensatore rinascimentale, sosteneva che l’uomo,
tra tutte le creature, è un indeterminato: “animale di natura varia, multiforme
e cangiante”. Caratteristiche che sarebbero alla base della libertà e
dell’autonomia umane. Ma già Origene, grande teologo dell’età tardo antica, che
subì la distruzione delle sue opere, comandata da Giustiniano, in quanto
condannato dal concilio di Costantinopoli del 533, sosteneva che, al di là delle
leggi fisiche che ci governo, l’uomo agisce per un atto individuale di volontà.
L’uomo è un indeterminato di per sé, ma capace di essere ciò che vuole essere.
Un’iniezione di libertà cognitiva e comportamentale, straordinaria per l’epoca e
per il determinismo intellettuale che dominava. Non a caso, da Pico, prima
citato, a Erasmo, a Shaftesbury, fino a Kant (nella foto) e a Schelling, Origene
è un punto di riferimento, un “buon maestro”. L’autonomia kantiana (libertà e
necessità coesistono nel concetto di autonomia, quando l’uomo obbedisce ad una
legge che liberamente si è dato) affonda qui le sue radici. Ecco, quindi, il
valore di quell’apparato capace di un miliardo di miliardi di operazioni al
secondo, capace di libertà e di regola, di autonomia e di relazione,
quell’apparato di pensieri, carne, ossa che chiamiamo essere umano.
sabato 23 giugno 2012
Discrasie, contraddizioni, cortocircuiti. Ingiustizie
Ha scritto recentemente Zygmunt Bauman (nella foto), in un articlo sul
quotidiano “La Repubblica”: non riusciamo più a ragionare in maniera efficace di
una società giusta. Questo deriva dal fatto che non c’è un soggetto credibile
che se ne faccia promotore. Poiché “tutto nasce dal divorzio sempre più evidente
tra il potere - la facoltà di porre in atto un progetto - e la politica - la
capacità di decidere che cosa fare o non fare”. E il potere è trasmigrato in
buona parte dallo Stato-nazione a uno spazio globale sopranazionale. Siamo
globalmente interdipendenti, ma i livelli di governo sono locali. Si chiede
Bauman se sia giunto il momento di colmare questo divario, questo enorme
intervallo. Non ne indica però gli strumenti: una sorta di “grande fratello”
governativo globale? Questo comporterebbe gravi problemi di gestibilità e di
garanzia democratica. Ma voglio sottolineare alcuni elementi: i livelli di
governo (nel senso del governo politicoamministrativo) sono ormai gravemente
deficitari dal punto di vista rappresentativo, nel senso “classico” del termine.
Nel contempo, i soggetti realmente decisori sono notevolmente scostati e
diversificati da quelli, ma ciononostante non esauriscono il potere decisionale
in senso complessivo (una variante ad un piano regolatore, o una mancata
variante, o una riforma del lavoro scellerata eccetera sono nella potestà di
soggetti di governo del primo tipo, eterodiretti quanto si vuole, ma la potestà
nelle assemblee elettive è loro). Poi ci sono coloro che - la stragrande
maggioranza - non stanno né qui né là. Sempre più soggetti, tra questi, decidono
di starsene in disparte, magari a difendersi dai colpi, oppure si impegnano al
suono delle parole dei grilloparlanti di turno. Poi c'è una costellazione di
altri soggetti, variamente interessati alla sfera pubblica. Non credo che sia
più possibile un modello che li integri unitariamente. Qualcosa deve saltare. Ci
sono troppe discrasie, troppe contraddizioni, troppi cortocircuiti, cose che non
tornano, ingiustizie. Grandi.
sabato 16 giugno 2012
Gli apprendisti stregoni
In uno dei film più belli mai realizzati, “Fantasia”, di Walt Disney (film a
tutti gli effetti, sofisticato, curatissimo,non semplicemente un lungometraggio
di animazione), c’è un episodio dedicato all’apprendista stregone. Lo
ricorderete: Topolino o Mickey Mouse, che dir si voglia, sulla musica di Paul
Dukas, apprendista dello stregone Yen Sid, prova dei trucchi di magia senza però
conoscere come controllarli. Le conseguenze sono immaginabili. l’episodio ha un
retroterra molto colto: si tratta della ballata omonima che Wolfgang Goethe
compose nel 1797, a sua volta ispirata a un episodio del Filopseudès, ovvero
“l’amante del falso”) di Luciano di Samosata. Goethe narra di uno stregone che
si assenta e del suo apprendista che decide di usare la magia per animare una
scopa e fare le pulizie con nessuna fatica. Ma la scopa è incontrollabile, e si
sfiora il disastro, rimediato, poi, al sopraggiungere dello stregone. La morale
è chiara: meglio non cominciare qualcosa che non si sa come finire. L’immagine
di Topolino che non sa come fermare la scopa da lui animata mi è tornata in
mente, quando ho letto di alcuni sviluppi della ricerca sulla modificazione
genetica. Amo i gatti, l’ho detto più volte, quindi sono rabbrividito
ulteriormente, quando ho letto di gatti nel cui dna sono stati trasferiti geni
di specie diverse, come quello di una medusa che li rende fluorescenti quando
vengono osservati sotto la luce blu. Terribile. Si trattava, pare, di una
ricerca condotta nell’ambito dello studio delle interazioni tra il virus
dell’immunodeficienza felina e quello della sindrome di immunodeficienza
acquisita. Ma i ricercatori hanno ammesso che la ricerca non sarà utilizzata
direttamente sugli esseri umani. Allora, cui prodest? Gli animali non sono, non
possono essere, non dovrebbero essere semplici pedine di una scacchiera
eterodiretta; non sono sequenze geniche da manipolare, ma creature, a tutti gli
effetti. Sono esseri senzienti, provano dolore, sentono l’affettività, ne
manifestano. Sono convinto che chi faccia del male ad un animale potrebbe farlo
anche ad un uomo. Sono convinto che questo archivio folle di pratiche
manipolatorie stia lì, da una parte, per ora semplice (?) “gioco” scientifico,
un domani applicabile anche – chissà – a creature “superiori”. Speriamo di no,
ma gli apprenditi stregoni sono troppi e incontrollati.
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