sabato 28 luglio 2012

Un folle, ovvero il mondo


A che cosa può servire un libro “che non è né istruttivo, né divertente, né filosofico, né elegiaco, che non parla né di chimica né di agricoltura, un libro che non dà nessuna ricetta né per le pecore né contro le pulci, che non parla né di ferrovie, né della Borsa, né dei recessi del cuore umano, né della foggia degli abiti medievali, né di Dio, né del diavolo, ma che parla di un folle, ovvero del mondo, questo grande idiota, che gira da tanti secoli nello spazio senza fare un passo e che urla, sbava, che dilania se stesso?”. Sono le “Memorie di un folle” di Gustave Flaubert. Il mondo folle, come in un’opera di Hieronymus Bosch, pittore così descritto dalla penna magistrale di Dino Buzzati: “Bosch nasce nel 1460 in Olanda, ducato di Borgogna; il suo tempo è a cavallo tra la fine di un’era, il Medioevo e l’alba del Rinascimento. L’arte fiamminga ha sempre interpretato con inquietudine questo tempo di guerre, di violenze e di fanatismi religiosi, in cui l’inquisizione apre la caccia alle streghe e la persecuzione della magia. È in atto una crisi dei valori che nella seconda metà del XV secolo è avvertibile in tutta Europa e che culminerà nella riforma luterana. Ma Bosch ne parla con originalità, è infatti conosciuto per le sue opere enigmatiche e inquietanti, per le immagini fantastiche, demoniache, per i simboli, e le creature che sembrano aver poco di reale. Tutto ciò però non è soltanto il frutto di una fantasia sfrenata: sono immagini della cultura alta e popolare. Di classe agiata, frequentava associazioni laiche, ma molto cristiane. Muore nel 1516; ma fu per la città di quel tempo un personaggio fuori dal comune, importante, rispettabile e rispettato”. Rispettato, anche nella sua apparente follia: “Lo si conosceva così, dalla sua risata – non dalle parole o dal suo modo di dipingere, ma dal suo riso. La sua fama di folle ha presto rimpiazzato la sapienza che cercavamo in lui; sapevamo bene che folle è colui che ha lo sguardo più fino sul mondo. Il folle è diverso, perché sa porsi al di fuori della realtà – e riderne, appunto. Non è forse la follia a rendere l’uomo libero?”. Non è forse la follia che sembra abitare tante apparenti “normalità” dei nostri tempi? E forse non sono stati giudicati folli, molte volte, comportamenti controcorrente, diversi, insoliti, contrari alla morale imperante? Non era forse un folle Francesco? O Gandhi? O lo stesso Cristo? Quante volte il mondo li ha rinnegati, ed ha così dilaniato se stesso. 

sabato 21 luglio 2012

Un "cuore pensante"


"La vita è difficile, ma non è grave". Olandese, di famiglia ebraica, nata nel 1914, Etty Hillesum si laureò in giurisprudenza ad Amsterdam. Era una giovane donna appassionata, di intelligenza vivace e capace di riflessioni molto profonde, a volte abbaglianti. Un “cuore pensante”. Etty Hillesum e la famiglia subiscono, a partire dall’estate del 1940, come tutti gli olandesi, l’occupazione nazista. nazista del popolo ebraico. Etty dapprima scrive: “Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa. Repulsione. Paura”, per poi giungere a “Bene, accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se gli altri non capiranno cos'è in gioco per noi ebrei. [...] Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato”. Affida ad un diario (scritto tra il marzo del ’41 e l’agosto del ’43) il suo percorso spirituale: sarà l’opera che la farà conoscere, insieme alle sue lettere, anche se con ritardo, negli anni Ottanta dello scorso secolo. Iniziano le deportazioni di ebrei nei campi di sterminio (di cui è simbolo la giovanissima Anna Frank): Etty potrebbe forse salvarsi, ma parte volontariamente per Westerbork, il campo di transito usato dai nazisti prima della deportazione verso Auschwitz, perché non intende sottrarsi alla sorte comune. Etty e il suo “altruismo radicale” (così Dario Arkel e Elena Petrassi): “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Nel diario e nelle lettere leggiamo il suo itinerario della mente e dello spirito verso Dio, il racconto di amori e rapporti umani, l’empatia totale con l’altro. Una sovrabbondanza di vita: “E’ vero che vivo intensamente, a volte mi sembra di vivere con un’intensità demoniaca ed estatica, ma ogni giorno mi rinnovo alla sorgente originaria, alla vita stessa, e di tanto in tanto mi riposo in una preghiera”. Ella stessa racconta di essersi ritrovata, un giorno, “spinta a terra da qualcosa che era più forte di me”, per cui “si deve avere anche il coraggio di pronunciare il nome di Dio”, perché “Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di lui”. E, nell’ultima lettera di Etty, leggiamo: “Dio è in buone mani”. Viene deportata ad Auschwitz e lì muore, il 30 novembre del 1943, a 29 anni, con il padre, la madre e un fratello. Aveva scritto, in piena occupazione: “Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare sé stessi” non è proprio una forma di d'individualismo malaticcio. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. E' l'unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d'eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra”.

sabato 14 luglio 2012

Una patologica, efficace razionalità


In alcuni bellissimi testi dei primi anni ’70, Gilles Deleuze e Felix Guattari, a seguito del loro lavoro su “L’anti-Edipo”, indagano sulla natura del capitalismo, mettendo in luce, in particolare, un nesso inedito, tra capitalismo, desiderio e schizofrenia. «Non c’è nessuna operazione, nessun meccanismo industriale o finanziario che non riveli la follia della macchina capitalistica e il carattere patologico della sua razionalità (non una falsa razionalità, ma una vera razionalità di questa patologia, di questa pazzia, perché la macchina funziona, siatene certi). Non c’è pericolo che questa macchina impazzisca, lo è fin dall’inizio, ed è in questa pazzia che trova la sua razionalità». Parole che rileggo sovente, nel riflettere su meccanismi, parole ed azioni che vediamo svolgersi sotto i nostri occhi, se appena intendiamo andare oltre la corsa dello spread. Pensiamo ad un premier che parla di “guerra”: si tratta di un linguaggio devastante. Pensiamo: in guerra l'emergenza è massima, si contano i morti ed i feriti, ci si sacrifica senza giustizia ed equità per ottenere la vittoria. L’alternativa è tra uccidere o morire. La democrazia è sospesa. Non a caso, Monti ha detto “siamo in guerra” ed ha criticato pesantemente la “concertazione” (quindi la mediazione), parlando all’Abi, cioè alle banche: un ambito in cui giustizia ed equità proprio sono fuori contesto. Nella stessa giornata, la Bce (pensiamo: Banca centrale europea) detta ai governi ulteriori regole in materia di politiche economiche e salariali. Temo che sia in atto una svolta di tipo autoritario, che rischia di essere epocale. Lo Stato moderno si è costituito, superando il vassallaggio, attraverso la stipula di un patto sottoscritto tra gli individui non ancora associati. Con questo patto, si cedeva una quota di “libertà” individuale (sottostando a delle regole), in cambio di un sistema di protezione e di rete. Oggi, lo Stato, gli Stati si stanno sottraendo a questo patto fondativo. Non esiste più contrattualismo, bensì imposizione e pratiche predatorie, con una governance dettata dall’economia, dalla finanza, apparentemente non politica, che invece lo è profondamente. La democrazia è conflitto, ma non guerra; è dissenso e assenso, in libera contrattazione, non vassallaggio e servaggio, giustificati da una continua emergenza. Non mi hanno mai affascinato le previsione di apocalittici scenari, ma mi sembra di intuire che qualcuno pensi alla costruzione di una sorta di sistema neofeudale (appunto, il vassallaggio), retto da tecnocrazia e finanziarizzazione. E' una feroce, cattiva riorganizzazione del capitale, della sua razionalità patologica. E, se Deleuze e Guattari avessero ragione, funzionerà.

sabato 7 luglio 2012

La qualità di un'epoca


Un’immensa quantità di informazioni viaggia ogni secondo in tutto il mondo. Milioni di miliardi di dati, ogni secondo. Apparati elettronici, circuiti integrati, macchine, elementi materiali e immateriali: ma niente che, ancora, possa competere con la mente umana. E’ stato calcolato che un computer che volesse simulare un essere umano dovrebbe compiere un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, con un impatto energetico infinitamente superiore a quello che serve ad una persona per vivere. E’ interessante ragionare in questi termini, per riflettere sempre di più su quanto straordinario e irripetibile siano il corpo e la mente umana. Ma che cos’è, l’uomo? Non si potrebbero contare in una vita le pagine, i volumi, i tomi che sono stati scritti sull’argomento. Giovanni Pico della Mirandola, pensatore rinascimentale, sosteneva che l’uomo, tra tutte le creature, è un indeterminato: “animale di natura varia, multiforme e cangiante”. Caratteristiche che sarebbero alla base della libertà e dell’autonomia umane. Ma già Origene, grande teologo dell’età tardo antica, che subì la distruzione delle sue opere, comandata da Giustiniano, in quanto condannato dal concilio di Costantinopoli del 533, sosteneva che, al di là delle leggi fisiche che ci governo, l’uomo agisce per un atto individuale di volontà. L’uomo è un indeterminato di per sé, ma capace di essere ciò che vuole essere. Un’iniezione di libertà cognitiva e comportamentale, straordinaria per l’epoca e per il determinismo intellettuale che dominava. Non a caso, da Pico, prima citato, a Erasmo, a Shaftesbury, fino a Kant (nella foto) e a Schelling, Origene è un punto di riferimento, un “buon maestro”. L’autonomia kantiana (libertà e necessità coesistono nel concetto di autonomia, quando l’uomo obbedisce ad una legge che liberamente si è dato) affonda qui le sue radici. Ecco, quindi, il valore di quell’apparato capace di un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, capace di libertà e di regola, di autonomia e di relazione, quell’apparato di pensieri, carne, ossa che chiamiamo essere umano. 

sabato 30 giugno 2012

Un apparato che chiamiamo essere umano


Un’immensa quantità di informazioni viaggia ogni secondo in tutto il mondo. Milioni di miliardi di dati, ogni secondo. Apparati elettronici, circuiti integrati, macchine, elementi materiali e immateriali: ma niente che, ancora, possa competere con la mente umana. E’ stato calcolato che un computer che volesse simulare un essere umano dovrebbe compiere un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, con un impatto energetico infinitamente superiore a quello che serve ad una persona per vivere. E’ interessante ragionare in questi termini, per riflettere sempre di più su quanto straordinario e irripetibile siano il corpo e la mente umana. Ma che cos’è, l’uomo? Non si potrebbero contare in una vita le pagine, i volumi, i tomi che sono stati scritti sull’argomento. Giovanni Pico della Mirandola, pensatore rinascimentale, sosteneva che l’uomo, tra tutte le creature, è un indeterminato: “animale di natura varia, multiforme e cangiante”. Caratteristiche che sarebbero alla base della libertà e dell’autonomia umane. Ma già Origene, grande teologo dell’età tardo antica, che subì la distruzione delle sue opere, comandata da Giustiniano, in quanto condannato dal concilio di Costantinopoli del 533, sosteneva che, al di là delle leggi fisiche che ci governo, l’uomo agisce per un atto individuale di volontà. L’uomo è un indeterminato di per sé, ma capace di essere ciò che vuole essere. Un’iniezione di libertà cognitiva e comportamentale, straordinaria per l’epoca e per il determinismo intellettuale che dominava. Non a caso, da Pico, prima citato, a Erasmo, a Shaftesbury, fino a Kant (nella foto) e a Schelling, Origene è un punto di riferimento, un “buon maestro”. L’autonomia kantiana (libertà e necessità coesistono nel concetto di autonomia, quando l’uomo obbedisce ad una legge che liberamente si è dato) affonda qui le sue radici. Ecco, quindi, il valore di quell’apparato capace di un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, capace di libertà e di regola, di autonomia e di relazione, quell’apparato di pensieri, carne, ossa che chiamiamo essere umano.

sabato 23 giugno 2012

Discrasie, contraddizioni, cortocircuiti. Ingiustizie


Ha scritto recentemente Zygmunt Bauman (nella foto), in un articlo sul quotidiano “La Repubblica”: non riusciamo più a ragionare in maniera efficace di una società giusta. Questo deriva dal fatto che non c’è un soggetto credibile che se ne faccia promotore. Poiché “tutto nasce dal divorzio sempre più evidente tra il potere - la facoltà di porre in atto un progetto - e la politica - la capacità di decidere che cosa fare o non fare”. E il potere è trasmigrato in buona parte dallo Stato-nazione a uno spazio globale sopranazionale. Siamo globalmente interdipendenti, ma i livelli di governo sono locali. Si chiede Bauman se sia giunto il momento di colmare questo divario, questo enorme intervallo. Non ne indica però gli strumenti: una sorta di “grande fratello” governativo globale? Questo comporterebbe gravi problemi di gestibilità e di garanzia democratica. Ma voglio sottolineare alcuni elementi: i livelli di governo (nel senso del governo politicoamministrativo) sono ormai gravemente deficitari dal punto di vista rappresentativo, nel senso “classico” del termine. Nel contempo, i soggetti realmente decisori sono notevolmente scostati e diversificati da quelli, ma ciononostante non esauriscono il potere decisionale in senso complessivo (una variante ad un piano regolatore, o una mancata variante, o una riforma del lavoro scellerata eccetera sono nella potestà di soggetti di governo del primo tipo, eterodiretti quanto si vuole, ma la potestà nelle assemblee elettive è loro). Poi ci sono coloro che - la stragrande maggioranza - non stanno né qui né là. Sempre più soggetti, tra questi, decidono di starsene in disparte, magari a difendersi dai colpi, oppure si impegnano al suono delle parole dei grilloparlanti di turno. Poi c'è una costellazione di altri soggetti, variamente interessati alla sfera pubblica. Non credo che sia più possibile un modello che li integri unitariamente. Qualcosa deve saltare. Ci sono troppe discrasie, troppe contraddizioni, troppi cortocircuiti, cose che non tornano, ingiustizie. Grandi.

sabato 16 giugno 2012

Gli apprendisti stregoni


In uno dei film più belli mai realizzati, “Fantasia”, di Walt Disney (film a tutti gli effetti, sofisticato, curatissimo,non semplicemente un lungometraggio di animazione), c’è un episodio dedicato all’apprendista stregone. Lo ricorderete: Topolino o Mickey Mouse, che dir si voglia, sulla musica di Paul Dukas, apprendista dello stregone Yen Sid, prova dei trucchi di magia senza però conoscere come controllarli. Le conseguenze sono immaginabili. l’episodio ha un retroterra molto colto: si tratta della ballata omonima che Wolfgang Goethe compose nel 1797, a sua volta ispirata a un episodio del Filopseudès, ovvero “l’amante del falso”) di Luciano di Samosata. Goethe narra di uno stregone che si assenta e del suo apprendista che decide di usare la magia per animare una scopa e fare le pulizie con nessuna fatica. Ma la scopa è incontrollabile, e si sfiora il disastro, rimediato, poi, al sopraggiungere dello stregone. La morale è chiara: meglio non cominciare qualcosa che non si sa come finire. L’immagine di Topolino che non sa come fermare la scopa da lui animata mi è tornata in mente, quando ho letto di alcuni sviluppi della ricerca sulla modificazione genetica. Amo i gatti, l’ho detto più volte, quindi sono rabbrividito ulteriormente, quando ho letto di gatti nel cui dna sono stati trasferiti geni di specie diverse, come quello di una medusa che li rende fluorescenti quando vengono osservati sotto la luce blu. Terribile. Si trattava, pare, di una ricerca condotta nell’ambito dello studio delle interazioni tra il virus dell’immunodeficienza felina e quello della sindrome di immunodeficienza acquisita. Ma i ricercatori hanno ammesso che la ricerca non sarà utilizzata direttamente sugli esseri umani. Allora, cui prodest? Gli animali non sono, non possono essere, non dovrebbero essere semplici pedine di una scacchiera eterodiretta; non sono sequenze geniche da manipolare, ma creature, a tutti gli effetti. Sono esseri senzienti, provano dolore, sentono l’affettività, ne manifestano. Sono convinto che chi faccia del male ad un animale potrebbe farlo anche ad un uomo. Sono convinto che questo archivio folle di pratiche manipolatorie stia lì, da una parte, per ora semplice (?) “gioco” scientifico, un domani applicabile anche – chissà – a creature “superiori”. Speriamo di no, ma gli apprenditi stregoni sono troppi e incontrollati.