sabato 26 maggio 2012

La vera bellezza


Ho trovato, su una bancarella, un aureo libretto dei tempi andati: un “Breviario di letteratura infantile”, di Lina Passarella, editrice La Scuola. L’anno era il 1944: annus horribilis, tra i tanti, per il nostro Paese e per il mondo intero. La Seconda guerra mondiale era in pieno svolgimento, tra battaglie, massacri, bombardamenti, sbarchi. L’Italia, occupata dalle truppe tedesche; le forze alleate avanzavano, le città si liberavano, avvenivano le stragi: Sant’Anna e Marzabotto, per tutte. Eppure, la signora Passarella scriveva dell’educazione dei bambini, e scriveva dei libri, e della bellezza. “La vera bellezza ha il tono dell’eternità. I libri belli adatti ai bambini e ai fanciulli sono belli per tutti, anche per gli adulti […]”. Proseguiva, con un ragionamento dalla struttura gentiliana, dicendo che la misura artistica, la precisione del linguaggio scientifico, la coerenza di orientamento spirituale di fronte ai problemi morali, sociali, politici, religiosi non erano che manifestazioni di onestà. Il filosofo Giovanni Gentile elaborò un sistema di pensiero, l’attualismo, che informò di sé in maniera rilevante la cultura italiana tra le due guerre mondiali. Ostinatamente fedele al fascismo, pagò con la vita, in quello stesso 1944, la sua adesione al regime, ucciso a Firenze da un comando gappista. Ma leggiamo ancora: “Ha una bellezza tutta sua e grande questo fluire della vita pratica nell’arte e dell’arte nella vita pratica”. Non conosco la storia personale ed intellettuale di Lina Passarella, né i suoi orientamenti politici. Trovo però singolarmente interessante che, in tempi procellosi, si perseguisse la strada dell’unitarietà di arte, etica, bellezza, vita pratica; di vita contemplativa e vita attiva. Una declinazione coerente del “cerchio magico” dell’attualismo gentiliano, scovata in un libretto acquistato su una bancarella. La cultura semina. La cultura dissemina se stessa.

sabato 19 maggio 2012

La filosofia declinabile


Si parla, spesso, di filosofia di vita. O di filosofia del corso delle cose. Una filosofia dell’esserci, della ragion pratica: e si giunge alla filosofia della cucina. O del gioco del calcio. Parlando in linea generale, è un bene, secondo me, che saperi grandi, alti e robusti siano declinabili anche negli aspetti della vita quotidiana. Solo che dovremmo rispettare, come in tutte le cose, il limite del buon gusto e dell’ironia, o autoironia, peraltro difficilmente definibile. Il grande scrittore e polemista austriaco Karl Kraus ebbe a scrivere di avere capito dove si fossero spostati i limiti del linguaggio, quando udì definire un cavallo, vincitore di gare, “geniale”. E così, abbiamo potuto leggere in svariate occasioni della “filosofia” di Mourinho: la filosofia del “zero tituli”. Anche se, per dire, sono fermamente convinto che, in cucina, si possa senz’altro esprimere una forma di filosofia, nel senso dell’apprendimento intellettuale, sensoriale e gustoso di un sapere, o un insieme di saperi, in cui l’elemento del sapere tecnico si combina con la capacità di manipolazione, ma anche di ragionamento e previsione. Un piatto si cucina con la mente, prima che con le mani. Esattamente come nel recitare una poesia, si può ripetere pedissequamente la ricetta contenuta nelle pagine di un libro, come elaborare varianti di intonazione ed interpretazione. Accade, quindi, che un filosofo rigoroso come Tullio Gregory abbia firmato la sezione “cucina filosofica” del Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, prendendo spunto, per ideare i menu, dai simboli della fortuna: la ruota, la sfera, la benda, le ali, il mare ondoso, in un profluvio di gusti e profumi, passando dal cibo della fortuna, a base di riso, alla ruota della fortuna, espressa dalle rotondità di rosette, tortelli e zampone, per giungere alle ali della fortuna, con oche, polli, galletti, faraone. Su tutto, la cornucopia, simbolo di abbondanza. In tempi di crisi, il piacere della cucina, fisico e intellettuale, è un gran guadagno.

domenica 13 maggio 2012

I frutti di Demetra


Una donna a cui viene rapita la creatura. È Demetra. Persefone, la figlia adorata, viene sottratta alla luce e alla madre dal dio degli inferi, Ade, che, per imprigionarla nel suo regno sotterraneo, le fa mangiare un melograno. Perché questo frutto? La simbologia è trasparente: il melograno lo si coglie. Cosa fa, Demetra? Toglie la fertilità alla Terra. La Terra diviene sterile. Immaginiamoci una Terra sterile. Anni fa (1983), un film, “The day after”, che i cinofili reputano di serie B, ma che influenzò moltissimo l’immaginario di una generazione, mostra gli effetti del dopo bomba atomica. È così che doveva presentarsi la Terra inaridita dal dolore di Demetra: grigia, opaca, polverosa, lunare senza la magia della Luna. Ma è potente anche l’immagine di Demetra che vaga per ogni dove, ululando, disperata, folle di dolore per la figlia. Lei, per la quale il poeta Callimaco scrisse: “Quando passa il canestro, dite, o donne:/Salve Demetra, molte volte salve,/generosa di cibo, ricca a staia”. Demetra ritrova Persefone, la figlia, e il responso finale è che la giovane donna dovrà trascorrere sei mesi con la madre e sei mesi con lo sposo. È, chiaramente, il ciclo delle stagioni. Ma è anche il riconoscimento del fatto che una donna non deve consegnarsi completamente all’ordine del maschio, ma può ancora stare nel discorso materno. “Salve Demetra, molte volte salve, generosa di cibo, ricca a staia. E come sono quattro le cavalle di chioma bianca che il canestro tírano, così la grande dea; molto potente, verrà portando bianca primavera e bianca estate e inoltre inverno e autunno e ci proteggerà da un anno all'altro”. Io credo che molti uomini compiano atti di violenza truce sulle donne, perché non sanno e non vogliono riconoscere quella potenza. La potenza della nascita, del dar vita, della primavera che”non bussa, ma entra sicura”: come scrisse un uomo, Fabrizio De André. “Salve, dea, conserva questa città in concordia e in opulenza. Porta tutti i prodotti della terra, ai buoi da' nutrimento, porta i frutti, porta la spiga, da' la mietitura, anche la pace nutri, perché mieta, colui che arò”.