Ho trovato, su una bancarella, un aureo libretto dei tempi andati: un
“Breviario di letteratura infantile”, di Lina Passarella, editrice La Scuola.
L’anno era il 1944: annus horribilis, tra i tanti, per il nostro Paese e per il
mondo intero. La Seconda guerra mondiale era in pieno svolgimento, tra
battaglie, massacri, bombardamenti, sbarchi. L’Italia, occupata dalle truppe
tedesche; le forze alleate avanzavano, le città si liberavano, avvenivano le
stragi: Sant’Anna e Marzabotto, per tutte. Eppure, la signora Passarella
scriveva dell’educazione dei bambini, e scriveva dei libri, e della bellezza.
“La vera bellezza ha il tono dell’eternità. I libri belli adatti ai bambini e ai
fanciulli sono belli per tutti, anche per gli adulti […]”. Proseguiva, con un
ragionamento dalla struttura gentiliana, dicendo che la misura artistica, la
precisione del linguaggio scientifico, la coerenza di orientamento spirituale di
fronte ai problemi morali, sociali, politici, religiosi non erano che
manifestazioni di onestà. Il filosofo Giovanni Gentile elaborò un sistema di
pensiero, l’attualismo, che informò di sé in maniera rilevante la cultura
italiana tra le due guerre mondiali. Ostinatamente fedele al fascismo, pagò con
la vita, in quello stesso 1944, la sua adesione al regime, ucciso a Firenze da
un comando gappista. Ma leggiamo ancora: “Ha una bellezza tutta sua e grande
questo fluire della vita pratica nell’arte e dell’arte nella vita pratica”. Non
conosco la storia personale ed intellettuale di Lina Passarella, né i suoi
orientamenti politici. Trovo però singolarmente interessante che, in tempi
procellosi, si perseguisse la strada dell’unitarietà di arte, etica, bellezza,
vita pratica; di vita contemplativa e vita attiva. Una declinazione coerente del
“cerchio magico” dell’attualismo gentiliano, scovata in un libretto acquistato
su una bancarella. La cultura semina. La cultura dissemina se stessa.
sabato 26 maggio 2012
sabato 19 maggio 2012
La filosofia declinabile
Si parla, spesso, di filosofia di vita. O di filosofia del corso delle cose.
Una filosofia dell’esserci, della ragion pratica: e si giunge alla filosofia
della cucina. O del gioco del calcio. Parlando in linea generale, è un bene,
secondo me, che saperi grandi, alti e robusti siano declinabili anche negli
aspetti della vita quotidiana. Solo che dovremmo rispettare, come in tutte le
cose, il limite del buon gusto e dell’ironia, o autoironia, peraltro
difficilmente definibile. Il grande scrittore e polemista austriaco Karl Kraus
ebbe a scrivere di avere capito dove si fossero spostati i limiti del
linguaggio, quando udì definire un cavallo, vincitore di gare, “geniale”. E
così, abbiamo potuto leggere in svariate occasioni della “filosofia” di
Mourinho: la filosofia del “zero tituli”. Anche se, per dire, sono fermamente
convinto che, in cucina, si possa senz’altro esprimere una forma di filosofia,
nel senso dell’apprendimento intellettuale, sensoriale e gustoso di un sapere, o
un insieme di saperi, in cui l’elemento del sapere tecnico si combina con la
capacità di manipolazione, ma anche di ragionamento e previsione. Un piatto si
cucina con la mente, prima che con le mani. Esattamente come nel recitare una
poesia, si può ripetere pedissequamente la ricetta contenuta nelle pagine di un
libro, come elaborare varianti di intonazione ed interpretazione. Accade,
quindi, che un filosofo rigoroso come Tullio Gregory abbia firmato la sezione
“cucina filosofica” del Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo,
prendendo spunto, per ideare i menu, dai simboli della fortuna: la ruota, la
sfera, la benda, le ali, il mare ondoso, in un profluvio di gusti e profumi,
passando dal cibo della fortuna, a base di riso, alla ruota della fortuna,
espressa dalle rotondità di rosette, tortelli e zampone, per giungere alle ali
della fortuna, con oche, polli, galletti, faraone. Su tutto, la cornucopia,
simbolo di abbondanza. In tempi di crisi, il piacere della cucina, fisico e
intellettuale, è un gran guadagno.
domenica 13 maggio 2012
I frutti di Demetra
Una donna a cui viene rapita la creatura. È Demetra. Persefone, la figlia
adorata, viene sottratta alla luce e alla madre dal dio degli inferi, Ade, che,
per imprigionarla nel suo regno sotterraneo, le fa mangiare un melograno. Perché
questo frutto? La simbologia è trasparente: il melograno lo si coglie. Cosa fa,
Demetra? Toglie la fertilità alla Terra. La Terra diviene sterile. Immaginiamoci
una Terra sterile. Anni fa (1983), un film, “The day after”, che i cinofili
reputano di serie B, ma che influenzò moltissimo l’immaginario di una
generazione, mostra gli effetti del dopo bomba atomica. È così che doveva
presentarsi la Terra inaridita dal dolore di Demetra: grigia, opaca, polverosa,
lunare senza la magia della Luna. Ma è potente anche l’immagine di Demetra che
vaga per ogni dove, ululando, disperata, folle di dolore per la figlia. Lei, per
la quale il poeta Callimaco scrisse: “Quando passa il canestro, dite, o
donne:/Salve Demetra, molte volte salve,/generosa di cibo, ricca a staia”.
Demetra ritrova Persefone, la figlia, e il responso finale è che la giovane
donna dovrà trascorrere sei mesi con la madre e sei mesi con lo sposo. È,
chiaramente, il ciclo delle stagioni. Ma è anche il riconoscimento del fatto che
una donna non deve consegnarsi completamente all’ordine del maschio, ma può
ancora stare nel discorso materno. “Salve Demetra, molte volte salve, generosa
di cibo, ricca a staia. E come sono quattro le cavalle di chioma bianca che il
canestro tírano, così la grande dea; molto potente, verrà portando bianca
primavera e bianca estate e inoltre inverno e autunno e ci proteggerà da un anno
all'altro”. Io credo che molti uomini compiano atti di violenza truce sulle
donne, perché non sanno e non vogliono riconoscere quella potenza. La potenza
della nascita, del dar vita, della primavera che”non bussa, ma entra sicura”:
come scrisse un uomo, Fabrizio De André. “Salve, dea, conserva questa città in
concordia e in opulenza. Porta tutti i prodotti della terra, ai buoi da'
nutrimento, porta i frutti, porta la spiga, da' la mietitura, anche la pace
nutri, perché mieta, colui che arò”.
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