Si parla, spesso, di filosofia di vita. O di filosofia del corso delle cose.
Una filosofia dell’esserci, della ragion pratica: e si giunge alla filosofia
della cucina. O del gioco del calcio. Parlando in linea generale, è un bene,
secondo me, che saperi grandi, alti e robusti siano declinabili anche negli
aspetti della vita quotidiana. Solo che dovremmo rispettare, come in tutte le
cose, il limite del buon gusto e dell’ironia, o autoironia, peraltro
difficilmente definibile. Il grande scrittore e polemista austriaco Karl Kraus
ebbe a scrivere di avere capito dove si fossero spostati i limiti del
linguaggio, quando udì definire un cavallo, vincitore di gare, “geniale”. E
così, abbiamo potuto leggere in svariate occasioni della “filosofia” di
Mourinho: la filosofia del “zero tituli”. Anche se, per dire, sono fermamente
convinto che, in cucina, si possa senz’altro esprimere una forma di filosofia,
nel senso dell’apprendimento intellettuale, sensoriale e gustoso di un sapere, o
un insieme di saperi, in cui l’elemento del sapere tecnico si combina con la
capacità di manipolazione, ma anche di ragionamento e previsione. Un piatto si
cucina con la mente, prima che con le mani. Esattamente come nel recitare una
poesia, si può ripetere pedissequamente la ricetta contenuta nelle pagine di un
libro, come elaborare varianti di intonazione ed interpretazione. Accade,
quindi, che un filosofo rigoroso come Tullio Gregory abbia firmato la sezione
“cucina filosofica” del Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo,
prendendo spunto, per ideare i menu, dai simboli della fortuna: la ruota, la
sfera, la benda, le ali, il mare ondoso, in un profluvio di gusti e profumi,
passando dal cibo della fortuna, a base di riso, alla ruota della fortuna,
espressa dalle rotondità di rosette, tortelli e zampone, per giungere alle ali
della fortuna, con oche, polli, galletti, faraone. Su tutto, la cornucopia,
simbolo di abbondanza. In tempi di crisi, il piacere della cucina, fisico e
intellettuale, è un gran guadagno.
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