"La vita è difficile, ma non è grave". Olandese, di famiglia ebraica, nata
nel 1914, Etty Hillesum si laureò in giurisprudenza ad Amsterdam. Era una
giovane donna appassionata, di intelligenza vivace e capace di riflessioni molto
profonde, a volte abbaglianti. Un “cuore pensante”. Etty Hillesum e la famiglia
subiscono, a partire dall’estate del 1940, come tutti gli olandesi,
l’occupazione nazista. nazista del popolo ebraico. Etty dapprima scrive: “Paura
di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me
stessa. Repulsione. Paura”, per poi giungere a “Bene, accetto questa nuova
certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò fastidio
con le mie paure, non sarò amareggiata se gli altri non capiranno cos'è in gioco
per noi ebrei. [...] Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e
trovo la vita ugualmente ricca di significato”. Affida ad un diario (scritto tra
il marzo del ’41 e l’agosto del ’43) il suo percorso spirituale: sarà l’opera
che la farà conoscere, insieme alle sue lettere, anche se con ritardo, negli
anni Ottanta dello scorso secolo. Iniziano le deportazioni di ebrei nei campi di
sterminio (di cui è simbolo la giovanissima Anna Frank): Etty potrebbe forse
salvarsi, ma parte volontariamente per Westerbork, il campo di transito usato
dai nazisti prima della deportazione verso Auschwitz, perché non intende
sottrarsi alla sorte comune. Etty e il suo “altruismo radicale” (così Dario
Arkel e Elena Petrassi): “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Nel
diario e nelle lettere leggiamo il suo itinerario della mente e dello spirito
verso Dio, il racconto di amori e rapporti umani, l’empatia totale con l’altro.
Una sovrabbondanza di vita: “E’ vero che vivo intensamente, a volte mi sembra di
vivere con un’intensità demoniaca ed estatica, ma ogni giorno mi rinnovo alla
sorgente originaria, alla vita stessa, e di tanto in tanto mi riposo in una
preghiera”. Ella stessa racconta di essersi ritrovata, un giorno, “spinta a
terra da qualcosa che era più forte di me”, per cui “si deve avere anche il
coraggio di pronunciare il nome di Dio”, perché “Dio non è responsabile verso di
noi, siamo noi a esserlo verso di lui”. E, nell’ultima lettera di Etty,
leggiamo: “Dio è in buone mani”. Viene deportata ad Auschwitz e lì muore, il 30
novembre del 1943, a 29 anni, con il padre, la madre e un fratello. Aveva
scritto, in piena occupazione: “Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli
si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso
dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo prendere
sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare sé
stessi” non è proprio una forma di d'individualismo malaticcio. Una pace futura
potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé
stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di
qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in
qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. E'
l'unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel
pezzetto d'eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come
in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio,
nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra”.
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