sabato 21 luglio 2012

Un "cuore pensante"


"La vita è difficile, ma non è grave". Olandese, di famiglia ebraica, nata nel 1914, Etty Hillesum si laureò in giurisprudenza ad Amsterdam. Era una giovane donna appassionata, di intelligenza vivace e capace di riflessioni molto profonde, a volte abbaglianti. Un “cuore pensante”. Etty Hillesum e la famiglia subiscono, a partire dall’estate del 1940, come tutti gli olandesi, l’occupazione nazista. nazista del popolo ebraico. Etty dapprima scrive: “Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa. Repulsione. Paura”, per poi giungere a “Bene, accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se gli altri non capiranno cos'è in gioco per noi ebrei. [...] Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato”. Affida ad un diario (scritto tra il marzo del ’41 e l’agosto del ’43) il suo percorso spirituale: sarà l’opera che la farà conoscere, insieme alle sue lettere, anche se con ritardo, negli anni Ottanta dello scorso secolo. Iniziano le deportazioni di ebrei nei campi di sterminio (di cui è simbolo la giovanissima Anna Frank): Etty potrebbe forse salvarsi, ma parte volontariamente per Westerbork, il campo di transito usato dai nazisti prima della deportazione verso Auschwitz, perché non intende sottrarsi alla sorte comune. Etty e il suo “altruismo radicale” (così Dario Arkel e Elena Petrassi): “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Nel diario e nelle lettere leggiamo il suo itinerario della mente e dello spirito verso Dio, il racconto di amori e rapporti umani, l’empatia totale con l’altro. Una sovrabbondanza di vita: “E’ vero che vivo intensamente, a volte mi sembra di vivere con un’intensità demoniaca ed estatica, ma ogni giorno mi rinnovo alla sorgente originaria, alla vita stessa, e di tanto in tanto mi riposo in una preghiera”. Ella stessa racconta di essersi ritrovata, un giorno, “spinta a terra da qualcosa che era più forte di me”, per cui “si deve avere anche il coraggio di pronunciare il nome di Dio”, perché “Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di lui”. E, nell’ultima lettera di Etty, leggiamo: “Dio è in buone mani”. Viene deportata ad Auschwitz e lì muore, il 30 novembre del 1943, a 29 anni, con il padre, la madre e un fratello. Aveva scritto, in piena occupazione: “Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare sé stessi” non è proprio una forma di d'individualismo malaticcio. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. E' l'unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d'eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra”.

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