venerdì 6 gennaio 2012

L’Italia si è desta? Prima di tutto un augurio

Si è concluso un anno di festeggiamenti per il 150° dell’Unità, anni difficili per mettere insieme linguaggi e culture diverse L’Italia si è desta? Prima di tutto un augurio.

di Agopoli

Abiamo ospitato, nel corso 
dell’anno che si è chiuso, 
una serie di interventi legati 
al tema dei 150 anni dell’Unità 
d‘Italia, di carattere storico, 
politico, culturale, e anche culinario 
(il cibo, è noto, fa parte di quella che si 
chiama cultura materiale). Ha detto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che mai avrebbe sperato in un fiorire di iniziative, incontri, discussioni, celebrazioni come si è verificato nel corso dell’anno. Vuoi per un disincanto tutto italiano («O Franza o Spagna, purché se magna»: una frase che cita già Francesco Guicciardini, e siamo agli inizi del 1500!), o per il timore che certa propaganda anti italiana, localistica, inneggiante alla frammentazione ed al “particulare” potesse avere la meglio. Non è stato così. Per fortuna. È uscito da poco tempo un libro del Presidente, dal titolo «Una e indivisibile» (per i tipi della casa editrice Rizzoli). Leggiamone qualche brano: «Abbiamo insistito tanto, e con pieno fondamento, su quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto». Non sono parole di circostanza. Se qualcosa hanno mostrato le tante celebrazioni, dalle più importanti delle grandi città, a quelle realizzate in piccoli paesi, da parte di associazioni di volontariato, magari con gli edifici pubblici impavesati con il tricolore, è stato proprio questo: la profondità delle radici del nostro stare insieme come nazione, come Italia unita. Si narra che, dopo l’Unità, Massimo D’Azeglio, che ne era stato uno dei protagonisti, abbia pronunciato una frase, rimasta celebre: «Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli Italiani». Beh, magari non è vero, ma è vera: perdonate il gioco di parole. Si dovettero veramente fare gli italiani, così diversi tra di loro, per lingua, abitudini, cucina. Ci piace ricordare un episodio del «Gattopardo», romanzo celeberrimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, un capolavoro uscito postumo nel 1958 (e dobbiamo la sua pubblicazione al grande Giorgio Bassani ed alla casa editrice Feltrinelli). Nel libro, dopo l’Unità, un dignitario piemontese, il cavaliere Chevalley, offre a don Fabrizio, il principe di Salina, la carica di senatore del Regno (che il principe rifiuta). L’autore è maestro nel dipingere l’arrivo di Chevalley dal Piemonte alla Sicilia: il viaggio, lunghissimo, il clima del tutto diverso, la cucina, che lo scombussola, la parlata incomprensibile, alcuni modi di comportarsi che non capisce. Il cavaliere ne è terrorizzato, e il figlio del principe, nell’accoglierlo, con sagacia e un pizzico di cattiveria esaspera i toni, per spaventare ancora più l’ospite che viene da lontano. Ma Chevalley si ricrederà: troverà cortesia degna di sovrani, educazione perfetta e un grande senso di ospitalità. L’episodio è sintomatico della grande distanza che c’era tra italiani ed italiani: davvero, abbiamo fatto passi da gigante, in questi 150 anni. Allora, tutto bene? No. Ma la strada è quella giusta. «Una e indivisibile»: sono parole della nostra Costituzione per definire la Repubblica. Il libro del Presidente ripercorre il lavoro diplomatico ed istituzionale di Cavour, lo slancio eroico e perfino mitico suscitato da Garibaldi, la partecipazione attiva di molta parte della società civile, del Sud, del Centro e del Nord, al processo di unità. Pochi fatti storici hanno suscitato un pari fervore, un pari entusiasmo: certamente, la Resistenza al nazifascismo è uno di questi. Sono momenti in cui un popolo prende nelle proprie mani il proprio destino. Si costruì (pensate) una lingua. Al momento dell’Unità, mancava una lingua comune alla conversazione: solo una minoranza era in grado di parlare italiano, tutti gli altri erano confinati nell’ uso del dialetto. Ma avvennero fenomeni importantissimi. Nel 1859, con legge voluta dal ministro dell’istruzione dell’ancora Regno di Sardegna Gabrio Casati, per la prima volta la scuola elementare divenne ovunque obbligatoria e gratuita. Questa scelta si rivelò di grande importanza, pur con i limiti derivanti dalle gravi diseguaglianze economiche e sociali. In queste scuole si insegnò l’Italia e l’italiano (ricordate il «Cuore» di Edmondo De Amicis, del 1886, libro obbligatorio per tante generazioni? Derossi che, a occhi chiusi, legge la carta d’Italia e ne elenca le bellezze… un libro retorico? Forse. Ma leggiamo questa breve citazione, e valutiamo se certi insegnamenti non sarebbero ancora da impartire: «Tutte le volte che incontri un vecchio cadente, un povero, una donna con un bimbo in braccio, uno storpio con le stampelle, un uomo curvo sotto un carico, una famiglia vestita a lutto, cedi loro il passo con rispetto: noi dobbiamo rispettare la vecchiaia, la miseria, l’amor materno, l’infermità, la fatica, la morte»). Secondo lo studioso Tullio De Mauro, l’unificazione linguistica si costruì con l’azione unificante della burocrazia e dell’ esercito, della stampa periodica e quotidiana, degli effetti demografici prodotti, ad esempio, dai fenomeni migratori interni e dall’aggregazione attorno a poli urbani. E poi, Alessandro Manzoni, con «I Promessi sposi», la grande opera che rinnova in profondità il linguaggio della saggistica e del romanzo, avvicinando lo scritto al parlato. Ci volle un nuovo inno, quel «Fratelli d’Italia», scritto nell'autunno del 1847 dall'allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli, musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro. Mameli morirà, due anni dopo, nella difesa della Repubblica romana. Novaro si dedicò alla causa dell’unità, musicando molti canti patriottici ed organizzando varie raccolte di fondi per finanziare e sostenere le imprese di Garibaldi. Pensate: fondò a Genova, tra il 1864 ed il 1865, una «Scuola Corale Popolare», ad accesso gratuito. Morì povero, nel 1885. Ma leggiamo ancora il Presidente Napolitano: «Il ruolo del Mezzogiorno nel movimento che si propose quell’obbiettivo e che riuscì a conseguirlo, la collocazione del Mezzogiorno nel nuovo Stato unitario, quale ebbe allora a definirsi, e la grande questione che per esso il Mezzogiorno rappresentò nel lungo percorso successivo, fino ai giorni nostri, costituiscono una componente decisiva della memoria e riflessione storica» e dell’esame di coscienza collettivo, vorrei dire «che vogliamo e dobbiamo suscitare». Il Mezzogiorno d’Italia ebbe un grande ruolo nel processo di Unità. Vorremmo ricordare, qui, l’episodio proto risorgimentale della Repubblica Napoletana del 1799. Con la restaurazione borbonica, vennero condannati a morte, alla prigionia o all’esilio grandi personaggi come Vincenzo Cuoco, Eleonora Fonseca Pimentel, Luisa Sanfelice, Pasquale Baffi, Vincenzo Russo e molti altri. Una classe intellettuale e borghese che fu falcidiata, e che avrebbe potuto dare un ulteriore, grande apporto alla vita politica e culturale del Mezzogiorno. Le donne, in particolare, ricevettero un trattamento orrendo e osceno. Ancora il Presidente, per un richiamo molto chiaro alla realtà di oggi ed al legittimo desiderio di maggiore autonomia dei poteri locali: «Il richiamo all’unità e indivisibilità della Repubblica vale a segnare, tra i "Principî fondamentali", quello di un invalicabile vincolo nazionale; e nello stesso tempo mette in evidenza come il riconoscimento e la promozione delle autonomie siano parte integrante di una visione nuova dell’unità della nazione e dello Stato italiano».

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