Da molti anni, abbiamo una fenomenologia del calcio che si nutre, oltre che
di simboli, di studi sociologici e linguistici. Espressioni calcistiche si sono
inserite nel linguaggio della politica (lo “scendere in campo” di un ex
presidente del consiglio); leggiamo ovunque metafore pallonare (chi ha un po’
più di anni, come me, ricorda il verbo "dribblare", usato in caso di
comportamenti che schivavano ed evitavano). Resistono le partite nei campetti di
oratorio, di periferia; nelle località di mare, la partita nel “gabbione” o
sulla spiaggia è imperdibile. Il calcio ha prodotto istantanee stampate nel
nostro immaginario: la rovesciata di Parola; il gol di Pelé su Burgnich; l’urlo
di Tardelli. I miti, i simboli: penso a questo, quando ascolto le notizie sullo
scandalo delle scommesse. Dice l’uomo della strada: ma come, guadagnano, a certi
livelli, cifre iperboliche, incredibili, e poi lucrano anche sui risultati e
vendono le partite? Ha terribilmente ragione. Scriveva il poeta Pier Paolo
Pasolini, che era un grande appassionato di calcio e che lo giocava volentieri:
«Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei
momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione
del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità.
Proprio come la parola poetica». Se il calcio non farà grande, profonda,
radicale pulizia (sempre che ciò sia possibile, sempre che l’infezione non
consenta il recupero dell’arto), quella poesia, quella sovversione del codice,
quel momento irripetibile da descrivere (ci ha provato un poeta, Umberto Saba),
in cui le persone sono felici, esultano, si abbracciano: “Pochi momenti come
questo belli,/a quanti l’odio consuma e l’amore,/è dato, sotto il cielo, di
vedere” non sarà più. E allora, a che cosa servirebbe, senza simboli, senza
poesia, senza sovversione, senza felicità, un campo in cui ventidue persone in
calzoncini rincorrono un pallone?
Nessun commento:
Posta un commento