sabato 3 settembre 2011

Chicago Boys versus Keynes


Fu un fulmine a ciel sereno. O quasi.
Settembre 2008, esplode la crisi, le
banche vacillano, il governo USA decide
di salvare la Lehman immettendo
liquidità per centinaia di miliardi di dollari.
Pare la fine dei cosiddetti Chicago
Boys, gli economisti liberisti allievi di
Milton Friedman e di George Stigler.
La Scuola di Chicago, a partire dai
tardi anni Quaranta, sostiene la supremazia
del libero mercato e il rifiuto di
qualsiasi intervento della mano pubblica
dell’economia, in contrasto con la
teoria dell’economista John Maynard
Keynes. L’approccio di Friedman ha
ispirato, negli anni, diversi governi, da
quello di Margaret Thatcher, in Gran
Bretagna, a quello del dittatore cileno
Augusto Pinochet, passado per gli Usa,
Paese in cui, negli anni Ottanta, il presidente
Ronald Reagan, repubblicano,
tagliò tasse e welfare, e successivamente
il democratico Bill Clinton abolì il
Glass-Steagall Act, una legge bancaria
del 1933 istituita per contenere la speculazione,
aprendo la strada alla deregulation
degli anni successivi. C’è da
dire che i “veri” Chicago Boys erano gli
studenti cileni che dagli anni Cinquanta
del secolo scorso in poi hanno studiato
economia all’Università di Chicago
nell’ambito del Progetto Cile, un programma
del Dipartimento di stato USA
formulato per influenzare le politiche
economiche del Paese sudamericano.
Il loro momento di gloria si ebbe
dopo il golpe di Pinochet, del 1973.
L’inflazione si era innalzata moltissimo,
e le teorie di Friedman furono utilizzate
in modo pervasivo: aziende statali
privatizzate, budget statale tagliato,
tariffe sulle importazioni tolte di mezzo,
con l’obiettivo di incrementare l’export
e abolire l’artificiale controllo dei
prezzi. Il risultato fu: inflazione frenata
e crescita sostenuta, a prezzo, però,
di un forte disagio sociale e dell’impoverimento
delle classi popolari, oltre
che, dopo qualche anno, ad una forte
ripresa della disoccupazione e al calo
sostanziale del Pil. Certo, l’impalcatura
neoliberista consente al Cile di resistere
meglio, rispetto ad altri Paesi della
zona, all’avanzata della globalizzazione.
Ma in che cosa consiste la dottrina
liberista? Sostanzialmente, nell’idea
che i mercati siano in grado di autoregolamentarsi
completamente. È questa
l’illusione che si sgonfia con la crisi del
2008: la deregolamentazione rampante
del settore finanziario porta la crack.
Torna alla ribalta l’economia materiale,
e la materialità del lavoro. Oggi, anche
gli economisti liberisti recano maggiore
attenzione alla forza-lavoro, all’elemento
umano, caso mai da riqualificare,
con programmi di training efficaci.
Certo, ci sono ancora “talebani” come
il professor Becker, che sostiene che
“riqualificare i lavoratori è un’utopia. È
già difficile insegnare qualcosa ad un
ventenne, figuriamoci a un cinquantenne”.
Ma si afferma sempre di più l’idea
che occorra un investimento significativo
dello Stato in istruzione, anche permanente,
e ricerca.

pubblicato il 17 giugno 2011

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