sabato 3 settembre 2011

Un atteggiamento mobile e vivo


Secondo Baruch Spinoza, grande filosofo
vissuto nel 17° secolo, ispirare passioni
tristi è necessario all'esercizio del potere: e
anzi, il despota è colui che ha bisogno della
"tristezza" dei suoi sudditi. Ora, la nostra
epoca è descritta da più parti come l'epoca
delle passioni tristi. Affezioni, sentimenti,
modalità dell’essere e dello stare nel mondo,
che, sempre nei termini spinoziani, corrispondono
a una diminuita capacità di agire,
all'impotenza singolare e collettiva, alla
disunione e alla disarticolazione delle soggettività,
corpi e menti. Quindi, non tanto
la tristezza che genera pianto o sofferenza,
quanto quella che deriva dall'impotenza
e dalla disgregazione: la tristezza prodotta
dalla delusione e dalla perdita di fiducia.
Osservando la nostra società, è facile
incontrare passioni tristi, sentimenti di resa
o una frammentazione tale dei progetti e
delle identità da indebolire la forza di immaginare
un agire collettivo. Eppure è proprio
nelle esperienze che si muovono lungo le
linee di fuga dello scoraggiamento che troviamo
forme di esodi possibili dalle passioni
tristi: esperienze politiche, artistiche e
di pensiero non rinunciatarie. Ciò significa
che la metafora è efficace per significare la
nostra condizione, ma non deve essere una
narrazione totalizzante. In un libro uscito da
noi nel 2004, “L'epoca delle passioni tristi”,
due psicoanalisti francesi, M. Benasayag
e G. Schmit, raccontano cosa avviene in
una società in crisi, parlando soprattutto
dei giovani, che vivono senza futuro e subiscono
la sconfitta della civiltà occidentale,
basata in passato troppo spesso su una
“promessa” di “onnipotenza” della scienza.
Il senso di una "precarietà perenne", la realtà
di “una vita in stato di emergenza” continua.
Eppure, dicono gli studiosi, si deve
tentare di interrompere il circolo vizioso
perverso. Come? “Solo un mondo di desiderio,
di pensiero e di creazione è in grado
di sviluppare dei ‘legami’ e di comporre la
vita in modo da produrre qualcosa di diverso
dal disastro”. In una società che predica
il trionfo e provoca paura e incertezza,
occorre, al contrario, costruire un futuro
sulla fragilità, sui legami, sulla dipendenza
intesa come interdipendenza. “Gli adulti
temono davvero l'avvenire e quindi cercano
di formare i loro figli in modo che siano
ben ‘armati’ nei suoi confronti”. I giovani “si
costruiscono uno scudo immaginario dietro
al quale si illudono di stare al sicuro”. Così
non si va da nessuna parte. Occorre valorizzare
la grande dinamica degli affetti e dei
corpi, dando senso a parole come futuro,
lavoro, politica, desiderio, libertà. Dietrich
Bonhoeffer, teologo luterano tedesco, combattente
contro il nazismo, impiccato nel
campo di concentramento di Flossenburg,
scrisse, in “Resistenza e resa”: «Spesso
qui ho pensato a dove passino i confini tra
la necessaria resistenza alla sorte e l’altrettanto
necessaria resa. Dobbiamo opporci
altrettanto decisamente al destino quanto
sottoporci a lui a tempo opportuno. Non
è possibile definire in linea di principio i
confini tra resistenza e resa, ma è certo
che debbono essere presenti ambedue e
ambedue devono venire assunte con decisione.
La fede richiede questo atteggiamento
mobile, vivo. Soltanto così possiamo
reggere alle varie situazioni del presente
e renderle feconde”.

pubblicato il 3 giugno 2011

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