venerdì 2 settembre 2011

LA SFIDA DI SISIFO


Un soggetto morale padrone della propria vita e dunque anche, per quanto è possibile, della propria morte. La discussione sul concetto di morte nel Novecento raccoglie e rielabora l’eredità di Kierkegaard, pensatore in cui non è presente alcuna concezione oggettivizzata della morte (come per esempio accadeva in Hegel, per il quale la morte dell’individuo è sempre e comunque inscritta all’interno del processo dialettico). L’interesse di Kierkegaard è di tipo esistenziale: al filosofo danese interessa analizzare il percorso attraverso il quale il singolo, ‘gettato’ nel mondo dallo ‘scacco ontologico’ costituito dalla nascita, realizza la propria autenticità attraverso l’infinito ventaglio di possibilità che appunto la sua condizione di essere gettato nel mondo gli offre. La morte, per Kierkegaard, non è concettualizzabile: è un evento singolo, individuale, è qualcosa che riguarda solo l’individuo e, in quanto tale, è inconcepibile e irrappresentabile. L’ineluttabilità della morte e il fatto che non si possa conoscere il momento in cui essa giungerà la rendono il limite per eccellenza della condizione umana, l’aporia principale. Limite, ma allo stesso tempo l’orizzonte di senso nel quale la vita si innesta. Heidegger radicalizzerà il senso della morte come 'un’esperienza della vita', in quanto l’esserci dell’essere dell’uomo è un essere-per-la-morte. Vivere secondo una modalità autentica significa riconoscere la morte come la possibilità radicale della propria esistenza. Il mito di Sisifo è noto: la punizione a cui è sottoposto nell’Ade consiste nello spingere un masso fino alla sommità di un colle ma, poco prima di giungere alla sommità, il masso gli sfugge sempre, rotolando a valle. Sisifo è stato condannato a questa pena per un determinato motivo: egli ha ingannato la morte. Cosa vuol dirci il mito? Forse che si può infliggere una punizione alla volontà di sfuggire alla morte solo con un terribile prolungamento della vita. Ha scritto il grande filosofo Gadamer: “Quando lessi il mito mi venne di colpo in mente l'uso che oggi gli uomini ne fanno: «Mio Dio! Noi siamo tutti un po' su questa strada, prolunghiamo artificiosamente la vita». Prosegue Gadamer: si ha diritto alla morte, perché si è uomini liberi e perché lo scopo della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che fare con un uomo il cui volere deve esser rispettato. Anche se “nella prassi diviene però molto più difficile poiché il morire, l'agonia stessa, è un lento paralizzarsi della libera possibilità di decidere in cui l'uomo vive come uomo consapevole e sano”. Questioni emergenti oggi, in cui parliamo del cosiddetto “testamento biologico”. Non è superfluo ricordare quanto detta, all’art. 32, la Costituzione italiana: “[…] Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

pubblicato il 22 aprile 2011

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