martedì 23 agosto 2011

Cibo del corpo, cibo dell’anima

Se il cibo è una componente fondamentale della vita dell’essere umano, perché, come scriveva il grande filosofo Ludwig Feuerbach, “Der Mensch ist, was er ißt”(“l’uomo è ciò che mangia”), tra il cibo emerge, con fragrante evidenza, il pane. Si narra che gli dei dell’Olimpo si nutrissero di nettare ed ambrosia, che sgorgavano da uno dei corni della capretta Amaltea, nutrice di Zeus. Cibi che assicuravano immortalità e eterna giovinezza: e ci fu un’epoca, narra Esiodo, in cui anche gli uomini erano ammessi al banchetto degli dei. Teleclide, V secolo a.C., con una certa verve comica così ricorda quell’età dell’oro: “ Nei ruscelli scorreva il vino... Il pesce entrava nelle case, si faceva friggere da solo e si serviva a tavola. Un fiume di minestra scorreva lungo i letti, trascinando pezzi di carne calda .... Pane d’orzo e di frumento facevano a gara davanti alla bocca ...e le focacce si travolgevano in un tumulto guerriero attorno alle mascelle”. Pare quasi di leggere uno di quei racconti medievali del Paese di Cuccagna, luogo mitico in cui, peraltro, il pane non si mangiava. Eppure era l’alimento base della società medievale, e da solo forniva la maggior parte delle calorie ingerite quotidianamente dai più poveri. Forse per questo, i ghiottoni di Cuccagna (ricordate il quadro di Pieter Bruegel il Vecchio? Il sogno degli affamati: stramazzare a terra satolli, sotto una tavola che ancora presenta tracce di cibo e di bevande), lo snobbavano. Il pane svolge anche una fondamentale funzione civilizzatrice: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, recita la preghiera, e, nel secolo VII, Isidoro di Siviglia, con ardita etimologia, afferma che il pane si chiama così perché accompagna ogni tipo di alimento, e in greco pan significa tutto. D’altro canto, nel “Decameron” del Boccaccio Cuccagna equivale al paese di Bengodi, con il suo vulcano di pasta e formaggio. In un anonimo “Capitolo” modenese del Cinquecento, il Paese di Cuccagna è localizzato tra le terre scoperte al di là dell’Oceano. Panis Angelicus è la penultima strofa dell’inno Sacris solemniis, scritto da Tommaso d’Aquino per una liturgia completa che riguarda la solennità del Corpus Domini. Qui prevale il tema del corpo di Cristo: “Il pane degli angeli diventa pane degli uomini […] qual meraviglia! il servo povero e umile mangia il Signore”. Eppure, il misticismo, soprattutto femminile, sceglie il digiuno come via per la santità: quella che è stata definita “la santa anoressia”. Aristotele ci ricorda, nella Metafisica, che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari, in quanto la sua natura è “per molti aspetti schiava”. Assumendo il cibo, assumiamo il mondo, e di conseguenza l’atto di mangiare «è sia banale, sia carico di conseguenze potenzialmente irreversibili», scrive C. Fischler. Oggi, le rivolte del pane in Algeria ed in Tunisia riportano l’attenzione alla fame, alla povertà, a ciò che Karl Marx chiamava la materialità dei bisogni umani. Se è vero che non di solo pane si vive, è innegabile che “per poter ‘fare storia’ gli uomini devono essere in grado di vivere”.

pubblicato il 14 gennaio 2011

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