venerdì 12 agosto 2011

Per amore del mondo


Hannah Arendt (pensatrice tedesca, uno dei capisaldi teorici del Novecento, nota soprattutto per i suoi studi sul totalitarismo) diceva – forse sorridendo un po’ – di non essere una filosofa bensì una teorica della politica. Basterebbe uno dei suoi testi, “Vita activa”, a smentirla. Ma una possibile interpretazione di questa frase sta nel fatto che Arendt era soprattutto interessata allo “spessore pratico e politico dell’attività razionale”, ad una filosofia che deve insegnare a pensare allo scopo di agire e che educa alla responsabilità come condizione della libertà. L’attività intellettuale deve essere radicata nella realtà e non può prescindere dal mondo, dalla condizione mondana. Arendt attraversò un Novecento ricco di tragedie e di grandi pensieri e di grandi pratiche. Ebrea tedesca, riuscì a emigrare negli USA con la madre. Quel che mi affascina nel suo pensiero è l’aspetto forte di una filosofia “pratica” nel senso kantiano del termine (quella che garantisce l’autonomia del soggetto, cioè quella capacità dell' uomo morale di autodeterminarsi e di essere legislatore di se stesso, in cui risiede l' essenza dell' azione morale): una filosofia che ha a che fare con il comportamento, l’etica, il “vivere- tra”, l’essere-insieme come fine in sé. Arendt si era laureata con una tesi su Sant’Agostino, e parlò spesso di “amor mundi”, amore per il mondo: il mondo comune, la sfera pubblica, prodotta dalle mani di tutti noi che ci viviamo, dalle pratiche e dalla conoscenza che lo portano alla luce. Cioè, che lo fanno nascere. Arendt è una filosofa che parla di natalità e di nascita: riceviamo il mondo con la nascita, come un’eredità cherichiede accoglienza e riconoscimento. In questa accoglienza sta anche lo spazio della libertà. La responsabilità nel suo intreccio con la libertà è un concetto caro ad un altro grande filosofo, Hans Jonas. Leggiamo questa sua frase: “Qui non è più il piacere della conoscenza, bensì la paura del futuro o la preoccupazione per l'uomo a motivare fondamentalmente il pensiero, che si costituisce esso stesso come un atto appunto di responsabilità». Lo stesso pensare diviene un atto di responsabilità, perché dall’essere – dalla vita – deriva una sorta di “obbligazione” alla sua conservazione, accompagnata dal senso di responsabilità. Hannah Arendt parlava del valore del Selbstdenken, del pensare da sé. Ancora un intreccio su cui riflettere, quello tra “pensare da sé” e “essere-tra”, essere-nel-mondo Val la pena rifletterci, in un’epoca in cui la riproducibilità tecnica pare investire anche il campo dei sentimenti e del pensiero.

pubblicato il 30 luglio 2010

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