venerdì 12 agosto 2011

Nonluoghi, nonparole, nonricordi

Marc Augé, sociologo ed etnologo francese, studioso di percorsi antropologici del quotidiano, è noto soprattutto per la teoria dei “nonluoghi”. Secondo le sue stesse parole, «nonluogo» si applicava contemporaneamente, su un piano teorico, a spazi nei quali non era possibile leggere nessuna relazione sociale, nessun passato condiviso, nessun simbolo collettivo e, su un piano empirico, a ogni spazio di comunicazione, circolazione e consumo che si sviluppa attualmente sul pianeta”. Spazi in cui ogni individuo è un «codice sostituibile». Esempio classico è quello dell’aeroporto: luogo di sguardi brevemente incrociati senza riconoscimento, di un incessante vai e vieni senza significanza che non sia quella legata allo spostarsi. Ma attenzione, dice lo stesso Augé: un aeroporto non è certo un nonluogo per chi ci lavora. Un invito a maneggiare con cura le idee complesse, un esempio di quanto la banalizzazione di concetti culturalmente e semanticamente ricchi, ma che sono entrati nel circuito comunicativo, possano essere a loro volta oggetto di stereotipizzazione. Proseguiamo nel giuoco? Diventano nonparole, espressioni gergali senza corpo difficilmente definibili come “lingua”. Caratteristica della lingua è possedere un codice comunicativo di scambio, nel circuito emittentericevente: le nonparole, le parole divenute stereotipi, vagano dopo l’emissione in una dimensione in cui incontrano vuote eterofonie ed espressioni gergali. I nonluoghi non sono i passaggi: quelle dimensioni interne alla città, di cui ha parlato Walter Benjamin, quei luoghi in cui non si sosta più di un istante, ma in cui sono contenute le possibilità che la città offre. Fu una risposta alla precarietà del Novecento, restituendo all’esistenza l’unico possibile radicamento, in un luogo in cui ci si muove con unosguardo soggettivamente disposto all’apertura su una prospettiva nuova, che si intravede in fondo al passaggio stesso. Se torniamo a quella preziosa definizione dell’individuo nel nonluogo come “codice sostituibile”, possiamo applicarla ad altre situazioni. Quante volte facciamo un viaggio e sentiamo il bisogno di acquistare un souvenir? In quel momento ne vediamo un significato insostituibile: l’oggetto ci parla e pensiamo che manterrà la sua capacità evocativa. A casa, poi, questo significato si smarrisce. L’oggetto rimane su uno scaffale e forse ingombra. Gli manca, in un altro contesto, quel nostro sguardo soggettivo, quell’incrocio di colori, sapori, suoni, panorami che lo significava. Adesso – per terminareil giuoco - è un nonricordo.

pubblicato il 23 luglio 2010

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