sabato 13 agosto 2011

La rivendicazione dell’identità


“Identità” è una parola che, nel pensiero moderno, ha avuto larga cittadinanza, tanto da inserirsi con forza anche nel dibattito pubblico e politico. L’accelerazione novecentesca e contemporanea dei grandi fenomeni migratori di massa (che nella storia si sono sempre verificati, solo in maniera più lenta) ha messo in primo piano questo termine, quasi che invocare una qualsivoglia “identità” servisse a far da argine alla piena di mutamenti che la storia porta con sé. Una reazione comprensibile, per un verso: l’essere umano oscilla da sempre – forse proprio “ontologicamente” – tra il desiderio di novità e l’arroccamento nelle proprie abitudini, nella propria cerchia. Il corpo, la vista, il tatto, l’udito sono al contempo confine e apertura. Ulisse è tornato ad Itaca dopo tanti anni di pericoli e di battaglie, ma il desiderio di avere un orizzonte aperto davanti prevale, e allora, “misi me per l’alto mare aperto”. Un poeta sicuramente diverso rispetto al sommo Dante, Guido Gozzano, al contrario canta la sicurezza di un salotto di altri tempi, pieno di “buone cose di pessimo gusto […] il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro”. D’altronde, la contraddizione è la qualità che ha fatto crescere l’essere umano (che altro è, ovviamente semplificando al massimo, il processo hegeliano tesi-antitesi- sintesi?). La costruzione di una identità è stato il percorso con cui comunità o movimenti hanno reclamato la legittimità del loro stare nel mondo, uscendo da una condizione di silenzio, minorità o marginalità. In questo senso, si è trattato d un processo dinamico. Ma la rivendicazione dell’identità ha un’altra faccia. L’identità presuppone una logica contrappositiva: un “noi”, quando non un “io”, contrapposto a “gli altri”. Figuriamoci lo spazio in cui agisce l’identità come una scacchiera in cui le varie pedine si muovono cercando di “mangiarsi” a vicenda. Il nostro mondo, proprio per la sua complessità (che sembra sovrastarci, e che per questo ci invoglia a cercare una autodefinizione precisa e circoscritta), necessita al contrario di apertura relazionale. Occorre costruire uno spazio comune per l’”io-tu-noi”. Una grande filosofa, Luce Irigaray, parla di “mancata esperienza dell’altro”: in questo senso, l’esigenza di una identità prefissata estromette ciascun individuo dall’effettiva situazione relazionale in cui egliella vive, a partire dalla nascita (scena primaria in cui la matrice di alterità è inscritta nella realtà, nei corpi della madre e della creatura che ella mette al mondo). E’ questo un possibile codice da proporre: non un’identità bloccata, e neppure l’annegamento in un tutto indifferenziato, ma la percezione di un rapporto “io-tu-noi” in cui i confini del corpo e della mente individuali non facciano da barriera ma da apertura reciproca.

pubblicato il 10 settembre 2010

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