sabato 20 agosto 2011

Segnare, osservare, classificare


Siamo abituati a contrassegnare il nostro territorio con segni, marche, stemmi. Siamo usi a stabilire confini, a
dividere, a separare. Il pensiero olistico fa poco per noi, se il “noi” significa noi appartenenti alla cultura occidentale. La stessa scienza si è formata in contrapposizione a quanto la natura offre al nostro sguardo, nel tentativo di cercare il volto nascosto delle cose. In questa indagine, fatta anche di violenza, la scienza ha utilizzato paradigmi di conquista e possesso, e così, in certo senso, ha perduto il mondo. Non solo: i saperi e le società stesse si sono edificate sul gesto mortifero della conquista e dell’appropriazione. Lo dice il filosofo Michel Serres, secondo cui la stessa agricoltura ha avuto origine dalla presa di possesso di un campo in cui erano sepolti i cadaveri degli antenati. Segnare e percorrere incessantemente. Il dio greco Hermes è messaggero degli dei e sovrintende ai viaggi ed agli incroci; è mentitore, ma premia la sincerità del contadino che non reclama come sua la falce d’oro, narra una sua storia. Dissimula, si traveste, aiuta amori mercenari. Anche in lui è forte il segno della divisione e dell’ambivalenza. Giano è il dio latino degli ingressi, che sono anche uscite, degli attraversamenti. A questo forte e strutturale senso di ambivalenza e di contraddizione la cultura occidentale ha contrapposto una grande ansia classificatoria e ha grandemente valutato l’osservazione. Si legge in un vecchio manuale delle scuole medie: “solo mediante l’osservazione, esercitata attraverso i sensi, noi possiamo raccogliere nel nostro spirito il materiale che, ordinato poi ed elaborato dall’intelligenza, formerà il nostro patrimonio spirituale: precisamente quello che noi manifesteremo parlando o scrivendo. Quanto più copioso ed abbondante sarà questo nostro patrimonio, tanto più ricca e profonda e interessante sarà la nostra espressione”. Il brano prosegue lodando le virtù di una osservazione costante e metodica, paziente ed ordinata, e raccomanda la precisione del vocabolo. Bene: da una parte, oggi, diminuisce il numero delle parole che vengono usate, dall’altra diminuisce la capacità di comprenderne svariate. Invece, le parole sono come le ciliegie, e dovrebbero venire sulle labbra una dietro l’altra, in una sarabanda felice, in un caleidoscopio colmo di faccette. Dobbiamo amare le parole.

pubblicato il 10 dicembre 2010

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