sabato 13 agosto 2011

La civiltà dell’immagine


La nostra vita quotidiana è intessuta di immagini e la rappresentazione visiva delle cose è il tramite forse privilegiato tra noi ed il mondo che ci circonda. Il rapporto tra immagine e oggetto, tra forma e contenuto è uno dei temi più intriganti che abbia percorso la riflessione filosofica, artistica e psicoanalitica. “Oh, gli occhi vostri / Che nel guardarmi così mi divisero!”: è Porzia, nello shakespeariano “Mercante di Venezia”, versi da cui Freud prende spunto per la sua riflessione sul motivo della scelta degli scrigni. Gli occhi percepiscono un’immagine e su quella si basa un’apprensione immediata della realtà, in molti casi una scelta. Freud sa bene che esistono dei rimasugli, quasi "rifiuti" dell'osservazione: e la psicoanalisi indaga cose segrete e nascoste, in base a elementi poco apprezzati o inavvertiti. Per orientarsi nel potere dell’immagine, che va oltre il linguaggio scritto e parlato, è importante costruire un proprio sguardo sul mondo: come fa il poeta, che dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del mondo. L’immagine descrive la realtà ed è essa stessa elemento della realtà. Si parla, per la nostra epoca, di "civiltà dell'immagine": l'esistenza umana è andata sicuramente assumendo una maggiore organizzazione visuale. Ma ogni forma di linguaggio,quindi anche quello delle immagini, non è di per sé comprensibile, in quanto comunica soltanto a coloro che vi sono stati educati. Che mediazione esiste, tra l’oggetto, l’immagine e come questa viene accolta dall’osservatore? Con quali effetti? Per il grande filosofo Walter Benjamin, la riproducibilità dell’opera d’arte ne distruggerebbe quella che egli definisce “l’aura”: qualcosa di irripetibile, presente nelle opere antiche, un qualcosa di originario che ne garantiva l’autenticità, proveniente da manipolazioni tecniche uniche e non totalmente imitabili; opere la cui esposizione era limitata a pochi, quindi poco “consunte” dallo sguardo altrui. Lo sguardo consuma: è evidente per ogni immagine riprodotta in modo seriale. Benjamin cita il simulacro che riposava nascosto nella cella dei templi, visibile al solo sacerdote, integro nel suo valore per tutta la comunità. “Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi”. Su un altro piano si pone invece il giudizio di un filosofo e semiologo francese, Roland Barthes, che si è soffermato sullo statuto della fotografia, sostenendo che, a differenza del testo scritto, questa sia un messaggio senza codice. “[...] Dall’oggetto all’immagine, vi è indubbiamente una riduzione: di proporzione, di prospettiva, di colore. Ma questa riduzione non è mai una trasformazione […] tra quest’oggetto e la sua immagine, non è affatto necessario disporre di un collegamento, cioè di un codice”. Questioni sempre più incalzanti nella complessità del nostro mondo, poiché, come scriveva Jean-François Lyotard, “Quella che stiamo vivendo è una stagione sconvolgente, attraversata da mutamenti rapidissimi, che lasciano in piedi le condizioni di stabilità per tratti brevissimi, lo spazio di un mattino travolto dalle trasformazioni scientifico-tecnologiche”. Peraltro, Lyotard ci invita a non nutrire nostalgia per l'unità e la totalità perduta, ma a riconoscere la positività di ciò che è molteplice, frammentato, polimorfo e instabile. Il catalogo è questo.

pubblicato il 17 settembre 2010

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