mercoledì 24 agosto 2011

GIOVINEZZA E FELICITA’


“Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia …”. Di cosa parliamo, quando parliamo di gioventù? Ed è così scontato, che gioventù e felicità siano, per così dire, sinonimi, come potrebbe suggerirci un intero apparato mediatico e semantico dei nostri giorni? “Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita», scriveva Paul Nizan, un intellettuale di grande spessore politico e filosofico, travolto dalle vicende del secolo scorso e morto, trentacinquenne, nella battaglia di Dunkerque. Nelle sue opere parla di giovani, in lotta contro la società, contro i modelli imposti, alla ricerca di un senso che indirizzi le loro energie e il loro pensiero verso un futuro degno di essere vissuto. Di recente, Alberto Bevilacqua ha commentato una edizione delle lettere che il filosofo danese Søren Kierkegaard scrisse a Regina Olsen: un legame molto importante, che, comunque, Kierkegaard ruppe assai presto. Commenta Bevilacqua: “Per lui, l' amore che continuerà a torturarlo, resta un contenitore che, nel sottofondo, mantiene intatte le emozioni sentimentali, mentre si colma in superficie di motivazioni d' altra natura, creando appunto un addebito di estraneità, ancorata alla super-razionalità dei famosi tre punti del filosofo: estetico, etico e religioso. Questa situazione, in parte abnorm e, rispecchia il disagio che corre fra i giovani contemporanei. Pur provando sentimenti di relazione, essi sono sempre più spesso impossibilitati a darvi assolutezza a causa di un' educazione a doppio taglio: o ricevuta caoticamente in famiglia, o simulata pericolosamente in una società sbandata”. Qui lo scrittore mette in luce, come lo stesso Nizan, un tema davvero centrale nell’esistenza giovanile: lo scontro tra ciò che si desidera e ciò che si è, tra ciò che si crede di desiderare e ciò che gli altri, la società, richiedono. Tornando al discorso della felicità, questa non pare legarsi alla gioventù in maniera scontata. Tanto più se pensiamo all’ordine simbolico della felicità, come è messo in luce da Walter Benjamin. Scrive il pensatore tedesco: “Mentre l´innocenza ingenua, grande, vive a diretto contatto con tutte le forze e le forme del cosmo, e trova i propri simboli nella purezza, nella forza e bellezza della forma, per l´uomo moderno l´innocenza è quella dell’omuncolo, è un´innocenza, diminutiva e microscopica, che assume la forma di un´anima che non sa nulla della natura, che si vergogna del suo stato e non osa riconoscerlo neanche davanti a se stessa, come se […] l´uomo felice fosse un guscio troppo vuoto, per non sprofondare di vergogna alla propria vista. E quindi il senso moderno della felicità è insieme piccino e segreto, e ne è derivata l´idea dell’anima felice che ripudia se stessa con un´attività continua, e coartando artificialmente i propri sentimenti”. Tratto della modernità è “un senso piccino e segreto” della felicità. Troppo poco, per chi, giovane, ha tutta la vita davanti.

pubblicato il 21 gennaio 2011

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